Quentin Tarantino

Commedia

Quentin Tarantino C`era una volta a... Hollywood


2019 » RECENSIONE | Commedia | Drammatico | ANTEPRIMA
Con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Margaret Qualley, Austin Butler, Dakota Fanning



12/08/2019 di Laura Bianchi
Ottomila persone in silenzio, in una splendida piazza rinascimentale, in una sera d'estate. Ottomila persone che condividono la stessa esperienza collettiva, tutte sedute dinanzi a uno degli schermi cinematografici più grandi del mondo, con un suono pensato su misura per la piazza e per il cielo aperto sopra di essa. Ottomila persone che si emozionano, si divertono, riflettono insieme, e non nel chiuso della propria casa. La scommessa di Locarno Film Festival è vinta, dal 1971: da quando, cioè, l'architetto Livio Vacchini pensò a un grande schermo in Piazza Grande, nel centro di Locarno, e creò  un evento culturale estivo di grande spessore.

Ma sabato 10 agosto c'è qualcos'altro che vibra, fra gli ottomila spettatori di Piazza Grande (e i 1300, che non trovano posto nella piazza, e sono dirottati in un palazzetto vicino): c'è l'attesa per l'anteprima del nono (e forse penultimo) film di Quentin Tarantino, mai visto nel montaggio scelto per il Festival. E Once upon a time...in Hollywood è davvero il tipo di film che richiede, e merita, una visione simile, in un dolby perfetto, che faccia risaltare la splendida, raffinata, espressiva colonna sonora (praticamente, il meglio dei brani USA anni Sessanta), e in uno schermo di 364 metri quadrati, dalla risoluzione altissima, che sottolinei i minimi dettagli di una Hollywood maniacalmente ricostruita dal regista, sulla base di ricordi personali, velati dalla nostalgia infantile, mescolata al disincanto di un intellettuale cinquantaseienne.

Il film gioca con le citazioni fin dal titolo: ricorda i due capolavori di Sergio Leone, mescolando il tema del passato con quello del western, mediato attraverso il filtro, tutto postmoderno e tipico di Tarantino, della con_fusione fra verità e finzione, vita vissuta e vita recitata, sogni e realtà, aspirazioni e disillusioni. La summer of love californiana è il climax, intriso di splendori e miserie, amore e morte, violenza e riscatto, vendetta e perdono, a cui giunge il racconto, che recupera un passato più ampio, quegli anni Sessanta in cui l'industria cinematografica, di Hollywood e non solo, visse il proprio boom.

Durante le due ore e mezza del racconto, Tarantino esaspera la tecnica del pedinamento, tipica del Neorealismo, seguendo una radiosa, sorridente, silenziosa ed espressiva Margot Robbie nei panni di Sharon Tate, o un eingmatico, solo apparentemente placido e zen Brad Pitt, alias Cliff Booth, stuntman e tuttofare di Rick Dalton, un attore alcolizzato e sulla via del tramonto (uno stratosferico e istrionico Leonardo di Caprio), per le strade di una Los Angeles che pare uscita dalla macchina del tempo, ricreata anche attraverso il filo conduttore dei due media dell'epoca: la radio, col suo costante cicaleccio sul meteo, sulle pubblicità e sulle hit parade, e la televisione, con le serie western o gialle, intrise di una violenza tanto esibita quanto velleitariamente irrealistica.

Il senso del ritmo del regista, però, non lo tradisce mai; quindi, eccolo allentare e restringere il filo che unisce i tre protagonisti, alternare scene in esterni e panoramiche ad altre in interni, e, fra queste, alcune che seguono la narrazione, ma che evocano stilemi cinematografici (come quella in cui Booth/ Pitt avanza verso la casa di George Spahn, nello Spahn Ranch, un tempo set di western, poi cuore della Manson Family), e altre che riproducono le riprese di uno o più film, alcune del passato e altre contemporanee all'azione, alcune che rappresentano un punto di vista e altre che sembrano oggettive, ma non lo sono mai.

Il tutto crea quel senso di caos e di spaesamento caratteristico di Tarantino (e della sua, della nostra, epoca), ma insieme evoca anche la tensione verso un'autenticità mai totalmente raggiungibile, al punto che la verità viene infine ricreata, la storia viene riscritta, i ricordi collettivi vengono sparigliati, in virtù della potenza evocativa di chi sa e vuole raccontare un'altra versione dei fatti, migliore per sé, pur con luci e ombre, contraddizioni e incoerenze, come un bambino che inventa la propria realtà, ci crede, e la propone agli adulti. In questo caso, il bambino è Tarantino, e gli adulti siamo noi, affascinati dalla fiaba, che egli sa narrare così bene, tanto che, alla fine, la accettiamo anche noi.

Sul tutto, l'abilità espressiva di un regista che non si limita a regalare allo spettatore belle immagini anestetizzate, corredate da un montaggio ineccepibile e da un suono efficace, ma che vuole guidarlo in un'esperienza intellettuale, culturale nel senso alto, facendogli apprezzare anche prove attoriali superlative, chiedendo ai propri interpreti una molteplicità di sfumature, che restituiscono la complessità dei piani narrativi, e che coinvolgono, proprio perché chi assiste alle scene è chiamato a decodificarli, a rispondere alle provocazioni, a fornire autonomamente un giudizio su di essi.

Di Caprio e Pitt, alla loro prima prova insieme, sono una coppia quasi antitetica, come Redford e Newman, De Niro e Pesci, Lemmon e Matthau, e l'alchimia fra loro funziona alla perfezione: alle nevrosi e alla villa in Cielo Drive del primo, fanno da contraltare la pacatezza e la sgangherata roulotte in cui vive il secondo, ma sono entrambi protagonisti di trascorsi e di vicende che li portano a scelte analoghe, mantenendo intatta la loro amicizia. E forse è questa la cifra di un film molto più complesso di quanto appaia a una prima analisi;  una riflessione, profonda e coinvolgente, sui sogni, sul passato, sulle delusioni, e infine sul modo con cui riusciamo a sopravvivere a tutto ciò. Che è poi la costruzione di altri sogni, non fosse che per il breve spazio di due ore e mezza. Il cinema, il grande cinema, riesce a farlo. E il lungo applauso di ottomila persone al termine del film lo sottolinea.

 



 


Commenti

Claudio Mariani


Film compassato di Tarantino, ma bello proprio per questo. Si perde nel finale troppo simile a Bastardi senza gloria. Ma in fondo è una sorta di grande dedica all`idealizzata Sharon Tate...

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