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Rock Internazionale • Alternative • Synth-pop, dark-wave, goth, songwriting

Zola Jesus Arkhon

2022 - Sacred Bones Records

24/06/2022 di Ambrosia J. S. Imbornone

#Zola Jesus#Rock Internazionale#Alternative #dark-wave #goth

A quasi cinque anni da Okovi, viene pubblicato oggi il sesto album della cantautrice, musicista e produttrice statunitense Nika Roza Danilova, classe 1989, il cui vero nome è Nicole Rose Hummel, ma che, figlia di genitori americani con una combinazione di origini russe, tedesche, slovene e ucraine, preferisce usare un nome slavo (in particolare, i suoi nonni emigrarono da Odessa, in Ucraina, in Nord Dakota; l’artista è invece nata in Arizona, ma è cresciuta e ha studiato in Wisconsin).

Nei dischi precedenti Danilova aveva rivestito il ruolo di autrice e curato ogni minimo aspetto musicale dei suoi dischi, ma questa volta, essendosi trovata in un momento di stallo e blocco creativo, per trovare nuova linfa per la sua musica, ha dovuto rinunciare in parte al suo bisogno di controllo sulla sua arte e si è rivolta a Randall Dunn (produttore, tra gli altri, di Algiers, Marissa Nadler e Black Mountain), ispirata dal suo lavoro con i Sunn O))) e da quanto fatto per la colonna sonora realizzata dal compianto compositore islandese Jóhann Jóhannsson per l’horror/revenge movie Mandy.

Zola Jesus ha iniziato inoltre a collaborare con il batterista e percussionista Matt Chamberlain, che, dopo essere stato solo per qualche settimana nel 1991 secondo batterista dei Pearl Jam, ha costruito una lunga carriera suonando con nomi come David Bowie, Bob Dylan, Natalie Merchant, Tori Amos e Fiona Apple. L’idea è stata quella di lasciare che il processo facesse il disco, cioè di far interpretare le due idee musicali e canzoni al produttore, così come a un batterista come Chamberlain, lasciando che i pezzi avessero la loro evoluzione, ottenendo sonorità a cui afferma che non sarebbe riuscita a pensare da sola.

È venuto fuori così un disco dal consueto fascino oscuro, ma meno spettrale e orchestrale: questa volta c’è spazio infatti per ritmi solenni e imprevedibili, ma anche a tratti più veloci, suadenti, brillanti e coinvolgenti, come in The Fall, in cui si accetta e abbraccia la caduta, il dover attraversare l’abisso per poi rinascere (l’ispirazione comune per Nika e Randall è qui tratta anche dal cosiddetto monomito, il tipico percorso e viaggio dell’eroe, che deve affrontare i pericoli peggiori, deve cadere per poi rialzarsi).

Altrove un synth-pop setoso risuona come una carezza fredda che dà i brividi, oppure prende sfumature cangianti e cupe, tra ritmi perentori e ammalianti; nel disco si ascoltano pure esplosioni sontuose, eppure eleganti, di suoni chiari e iridescenti, che poi sfociano in un piano classico e raffinato, strumento che rende invece essenziale la notevole Desire. Vi sono poi momenti grandiosi e vigorosi, ma quand'anche siano gli archi a renderli tali, prevalgono magari note prolungate e sospese, che a volte allentano pure ogni tensione, oppure in altri casi la tessitura dei synth porta una ventata più lieve e delicata; d’altronde anche gli sprazzi più gotici e quasi industrial, animati da una ritmica al fulmicotone, trovano comunque aria e luce in cui vibrarsi grazie ai synth.

Insomma, sospesi tra lampi di luce e oscurità vischiosa, tra suoni e voci talora dal sapore quasi ancestrale, da un lato, e la modernità di sperimentazioni curatissime dall’altro, gli scenari musicali in cui si cammina in queste canzoni sono differenti e ambivalenti e pertanto cambiano spesso, anche nello stesso pezzo, ma senza passaggi bruschi e lasciando intatta e costante la raffinatezza e il carisma ipnotico dell’artista. Danilova, infatti, riesce a riempire la scena anche da sola, con quella voce che si inerpica in acuti di cristallo e velluto, così come si fa potente, impetuosa e/o gronda emozioni profonde, pur mantenendo equilibrio e distanze per uno charme che sembra pure quello lontano e irraggiungibile di una dea, creatura insieme inquietante e salvifica. L’ottima produzione del lavoro e la performance lodevolissima di Chamberlain regalano d’altronde un’armonia impareggiabile e un’impressione persino di omogeneità a componenti eterogenee, che appaiono molto ben bilanciate.

Il titolo del disco, Arkhon, si rifà al greco antico, che indica un personaggio potente come un sovrano o un magistrato e probabilmente anche al concetto di archè come "potere" e "comando"; la parola però assume anche un significato specifico nell'ambito dello gnosticismo. Spiega infatti Danilova: "Gli Arkons sono un'idea gnostica del potere esercitato attraverso un dio imperfetto. Contaminano e offuscano l'umanità, mantenendola corrotta invece di lasciarle trovare un io armonioso. Mi sembra di vivere in un'epoca arconica; queste influenze negative stanno pesando estremamente su tutti noi. Siamo in un momento di arkhons. C'è del potere nel nominarlo."

Delle influenze negative occorre invece liberarsi, così come, secondo l’artista, non bisogna trattenere il dolore, che diventerebbe altrimenti sommerso e sepolto nell’inconscio, ma occorre liberarlo e lasciarlo andare, per approdare in qualche modo a una “verità”. Il primo singolo Lost parla d'altra parte di una comunione con la natura dei boschi che consenta proprio di abbandonare e lasciare andare ciò che si ha. Il ritornello parte con il verso “Everyone I know is lost”, perché Zola Jesus ha notato proprio che tutti quelli che conosce sono persi: lottano per ritrovare determinazione e fiducia nel percorso che stanno compiendo, ma si sentono senza speranza e senza futuro; ciò accade perché, a suo dire, “a mano a mano che ci allontaniamo dalla natura, ci allontaniamo da noi stessi". Lost è allora "un sigillo per riscoprire le nostre coordinate e rivendicare un nuovo percorso”. Il video della canzone, diretto dal regista turco Mu Tunç, sembra giocare su contrasti cromatici, misteriosi rituali e sulla contrapposizione tra buio e luce; il videoclip è stato girato in Cappadocia, tra spettacolari montagne innevate e grotte labirintiche che risalgono a 60 milioni di anni fa, rifugio nel tempo per tante persone e simbolo della “resilienza dell'umanità e della durabilità della nostra terra”.

In qualche modo emerge nelle canzoni che anche la stessa cantautrice si è sentita persa, perché sentiva dentro di sé un’esigenza di crescere e cambiare, non sapeva se dovesse accettare o rinnegare questo anelito profondo e ne era spaventata: aveva l’impressione di camminare verso un buco nero di incognite e si isolava dagli altri, perché non riusciva più a comprendere sé stessa. Ora ci insegna invece che occorre accettare i propri cambiamenti, senza sentirsi sbagliati. E che nei momenti difficili è preziosa l’empatia, il sentire il dolore dell’altro come se si potessero assaporarne le ferite. Il desiderio, “storm of the heart”, che spinge a vivere appunto i cambiamenti e a immergersi nell’ignoto, è una potente forza propulsiva secondo Zola Jesus, che, pur conscia che potenzialmente possa essere anche distruttiva, la celebra nel brano Desire.

Il peso del mutamento e dell’evoluzione, personale e musicale, qui è in definitiva ammesso e accolto, sicché i conflitti interiori e le forze oscure di un’era "arconica" non danno luogo a chiaroscuri violenti e tinte scomposte, ma sono liberati in una suprema armonia che affronta e scioglie i nodi, senza evitare la complessità, e avvolge nella melodia agrodolce della pacificata e conclusiva Do That Anymore.

Track List

  • Lost
  • The Fall
  • Undertow
  • Into the Wild
  • Dead &amp; Gone
  • Sewn
  • Desire
  • Fault
  • Efemra
  • Do That Anymore

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