
Marco Cantini Siamo noi quelli che aspettavamo
2016 - Radici music
Siamo noi quelli che aspettavamo è un viaggio nel tempo, un tentativo di rimettere le cose a posto, di ricordare una generazione sconfitta con l’onore delle armi. Inizia da un sogno e dalle riflessioni di un professore, figlio di attivisti del ’77 bolognese, al quale Marco Cantini presta la propria voce. Partono così i ricordi di una città divisa tra i carrarmati di Kossiga (Un blues di sanpietrini) e l’inarrivabile avventura di Andrea Pazienza, Stefano Tamburini e dei loro sodali, di Cannibale, Ranxerox e poi di Frigidaire. Bologna in bilico tra arte e rivolta, mentre la condizione esistenziale degli studenti fuori sede langue e il desiderio di cambiare tutto e subito si scontra con la progressiva perdita di contatto con la realtà (C’è chi prolunga i suoi anni da studente fino a saperne così tanto da non sapere fare più niente).
Poi il sogno, come la realtà di quegli anni, si scontra con il cosiddetto riflusso. La televisione commerciale ottunde le menti, la corsa si interrompe: hanno vinto la borghesia e il capitale, ci si disperde tra riscoperta del privato e fiumi di eroina. Rimane il tempo di interrogare i cattivi maestri, di chiedere loro il perché. Il professore immagina incontri con Lev Trotsky, Frida Kahlo e Pier Vittorio Tondelli e, appena prima del risveglio e della fine del sogno, l’ultimo ideale abbraccio, quello con Federico Fellini. Che precede la decisione di lasciare un’Italia ultracattolica e ambigua. Senza rimpianti o nostalgie, se non per quella rabbia repressa ma ancora viva.
Marco Cantini gioca la carta del concept-album per entrare nell’universo della discografia. Diciamolo: esordire con delle riflessioni sul ’77, le cui giornate non sono state del tutto storicizzate, non è una scelta facile né tantomeno accomodante, specie per chi, come il musicista fiorentino, non era ancora nato all’epoca dei fatti. Il gioco, però, riesce. Per il modo in cui si è scelto di ricordare non solo i carri armati, le spranghe e gli espropri proletari, ma anche, e soprattutto, una grande avventura artistico-culturale, per certi versi innovativa se non avanguardistica.
Poi c’è la musica che lega il tutto. Cantini si cala nel ruolo di cantautore attento a quel che succede attorno al suo mondo, prende ispirazione da Francesco Guccini della maturità e dall’Ivano Fossati degli anni ’90 per immergerli in un contesto in movimento tra esigenze folk, qualche rigurgito jazz, pizzichi di etnico. Ad attrarlo è la pulizia dei suoni acustici, equilibrati tra canzoni robuste e, a volte, dense di nubi, senza rinunciare al desiderio di alzare il ritmo (in Cinque ragazzi irrompe la voce di Erriquez della Bandabardò). No, Siamo noi quelli che aspettavamo non è un disco monolitico o di difficile fruizione. Tantomeno nostalgico o fuori tempo. È una foto nitida, e centrata, di una generazione ribelle che, forse, ha qualcosa da insegnare a chi, oggi, si ritrova tra le mani un mondo, e un Paese, apparentemente senza speranze.