Sam Mendes

Drammatico

Sam Mendes Empire of light


2022 » RECENSIONE | Drammatico | Commedia
Con Olivia Colman, Micheal Ward, Colin Firth, Toby Jones



05/03/2023 di Laura Bianchi
Rifugiarsi dalla vita. È possibile? Sam Mendes prova a rispondere a questa domanda con un'opera complessa, imperfetta, non troppo equilibrata, in cui sentimenti e riflessioni sembrano cogliere e non trovare quasi mai un punto di contatto.

Empire of light prende in prestito, dal celebre dipinto di Magritte, uno spunto, suggerendo una cifra interpretativa molto interessante: osservare le vite degli altri dal di fuori non sempre è corretto. Spesso, oltre la facciata delle case, si rivelano inquietudini, ansie, rimpianti e rimorsi, sogni infranti, le cui schegge continuano a ferire.

Oltre la facciata apparentemente impassibile ed efficiente di Hilary, vicedirettrice di un cinema di Margate, che ha conosciuto un'altra epoca di fasti, e ora sopravvive dignitosamente, Mendes ci fa scoprire l'anima tormentata di una donna che ha molto vissuto e sofferto, e ora sembra avere scelto l'anaffettività e l'apatia come via di fuga dalla vita. E, se quell'anima ha il volto intenso e cangiante di una superlativa Olivia Colman, possiamo essere certi che l'empatia con questo personaggio scatterà immediatamente, portandoci a sorvolare su alcune incongruenze, sull'eccesso di patetismo, su dialoghi un po' troppo enfatici, per concentrarci su quanto Hilary rappresenta. Ossia, la tentazione, o il tentativo, di fuggire dalla vita, destinato inevitabilmente a fallire, perché, se vivere significa amare, gli uomini non possono vivere senza un amore.

Che non è la passione meccanica e animalesca, subita da Hilary nei confronti del suo principale (Colin Firth, a sua volta inquieto e confuso), né il sogno di un'unione con Stephen, (il sorprendente Micheal Ward), molto più giovane e per giunta nero, in un'Inghilterra del 1981, pregna di razzismo e rabbia sociale, bensì il rispetto per se stessi, e per gli altri, l'amicizia, la forza di lottare contro i pregiudizi, di qualsiasi genere essi siano, primo fra tutti lo stigma della malattia mentale. 

La madre del regista ne ha sofferto, e si avverte in tutto il film il bisogno di elaborare la sofferenza, propria e altrui, per esorcizzarla, suggerendovi un'ipotesi di senso.

Chiunque ha il diritto di vivere la propria vita; e se, in tempi bui, questo dovesse significare chiudersi nel buio di un cinema per fuggire attraverso il fascio di luce, come viene suggerito dal quieto proiezionista del cinema (indimenticabile, Toby Jones), questa potrebbe anche essere un'opzione. Per uscire dal cinema migliori, grazie a chi ci ha mostrato la propria verità. Oppure, avere fiducia nell'arte, e in ciò che essa rappresenta per l'uomo.

Non a caso il film è ricco di canzoni che connotano gli stati d'animo dei personaggi (gli Specials per il giovane Steven, Joni Mitchell o Bob Dylan per Hilary), e una delle sequenze più intense è anche un omaggio a registi e attori che ci hanno permesso di fuggire dal mondo per qualche ora, per coltivare la fiducia nel mondo. Dopotutto, come dice Peter Sellers in Oltre il giardino, "Life is a state of mind"...

 


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