Roger Waters

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Roger Waters The Dark Side of the Moon Redux (SGB Cooking Vinyl, 2023)

13/10/2023 di Luca Swanz Andriolo

#Roger Waters#Rock Internazionale#Alternative

Un rifacimento storico

The Dark Side Of The Moon Redux è uno di quei dischi che è quasi impossibile giudicare per ciò che è, senza considerare gli antefatti, se non altro perché porta il titolo di un classico della Storia del Rock, nonché del disco più venduto e celebre dei Pink Floyd, band che Roger Waters sente come una propria creatura, essendone stato l’autore più prolifico. Si può subito dire – facendo un parallelo con il cinema – che si tratta più del Macbeth di Bela Tarr che non dello Psycho di Guns Van Sant: una ripresa autoriale più che in parte compiaciuta, che a molti parrà blasflema, ad altri pleonastica, mentre per altri ancora potrà rappresentare l’occasione per rileggere un Classico.  


Waters vs. Gilmour

Sono anni che le due entità residue della band di Cambridge, ovvero il gruppo capitanato da David Gilmour da una parte e l’esule ex leader Roger Waters dall’altra, tentano di (ri)appropriarsi del trademark originario, ammesso che sia mai stato solo uno, se si considera lo spettro di Syd Barrett esteso a buona parte della produzione del gruppo nel periodo più psichedelico e addirittura prog, sebbene il fondatore del gruppo compaia solo sul primo disco e su un brano del secondo. Il tutto con la costante presenza dei didascalici rumori diegetici, delle tematiche più o meno obbligate, quali l’incubo bellico e l’alienazione sociale ed individuale. Molti saranno concordi nell’attribuire gli esiti più vitali e sinceri a Waters, che però ha sempre trovato difficoltà a sostituire David Gilmour, nonostante le collaborazioni con Eric Clapton e Jeff Beck. Nel 2023, dopo anni di schermaglie e frecciate a mezzo stampa, il cantautore realizza quindi il rifacimento del suo (?) classico omettendo la chitarra elettrica, una volta per tutte, e riarrangiando i brani, cosa che a molti pare un sacrilegio, benché Bob Dylan, per fare un esempio, abbia sempre cambiato le proprie canzoni e i suoi ammiratori adorino questo gioco.


Il mondo presente

Le motivazioni pubbliche di questo rifacimento non dovrebbero essere celebrative: nelle parole di Waters si tratta di una rilettura matura e aggiornata di un disco che il cantautore non intende eliminare dalla propria storia musicale, ma che può essere ancora ascoltato come monito a ricercare una via d’uscita dalla follie delle mode e del mercato: il lato oscuro della luna è il rovescio della medaglia della vita contemporanea, il rimosso freudiano che solo in pochi osano considerare, a costo di trovarsi a fare i conti con il “lunatico nella propria testa” (così come interiore sarebbe stato, in seguito, il processo finale in The Wall, 1979): se la pazzia fa paura e il potere sgomenta, l’ammassamento e il conformismo possono rivelarsi ancora più terribili per la vita di un individuo. Dal rapporto con il denaro e il capitalismo allo scorrere del tempo, dalla tentazione identitaria della religione alla “muta disperazione in stile inglese” (che sarebbe ritornata nei testi di The Final Cut, 1983) fino all’eclissi finale, siamo invitati ad un viaggio oscuro, molto meno ricco melodicamente, ancora suadente a livello armonico e privo della forse troppo variegata e a suo modo commerciale produzione del 1973 (trattandosi probabilmente del disco più “pop” dei Pink Floyd). L’album si presenta infatti cupo ed omogeneo, forse persino monotono e sostanzialmente minimale, nonostante la presenza degli archi, che mai creano tappeto, quanto interventi mutuati dalla musica contemporanea. Tutto l’arrangiamento è basato su sintetizzatori, basso (suonato in una sola occasione da Waters, in Any Color You Like), batteria, un theremin quasi nascosto, qualche sparuto tocco di chitarra acustica, una lap steel difficile da percepire, un pianoforte accarezzato.


Una nuova voce

Ma la prima cosa che si può notare è destabilizzante e insieme sorprendente: Waters rinuncia alla sua voce acuta ed isterica, in qualche modo bowieana, distinguibile dal timbro di Gilmour solo da Animals, 1977, in poi, perché in precedenza tutti Pink Floyd optavano per un falsetto o un falsettone più o meno salmodiante e in linea con il folk inglese, tranne alcune incursioni in timbriche più roche e bluesy da parte di Gilmour, per assestarsi su un basso cavernoso e senile. Qualcuno ha parlato di Tom Waits, più che altro per pigrizia (capita spesso, se una voce è bassa o roca, come se non fossero esistiti Captain Beefheart o Howlin’ Wolf), ma il riferimento più evidente pare essere al Leonard Cohen degli ultimi dischi. Purtroppo, come si scopre presto, del cantautore canadese manca totalmente la concisione.


Dalla culla alla tomba

L’iniziale Speak to Me – su musica di Nick Mason – è a suo modo ancora molto floydiana, anzi, persino autocitazionista, con la ripresa di Free Four (in cui si parla del confronto tra gioventù e vecchiaia, tra idealismo e disincanto), da Obscured by Clouds, 1972, nel testo. È sempre stata una sorta di ouverture, che incorporava anche frasi melodiche di ciò che sarebbe seguito nel disco. Il recitativo, come si è detto, appare diverso dal solito, meno dolente e più statico. Il brano offre più voce che musica. La successiva Breathe resta sospesa; senza gli arabeschi di organo sarebbe dark ambient, ma l’arrangiamento d’archi è coraggioso: il riferimento è alla nascita, al suono del cuore materno. Waters dimostra di avere una statura vocale più che convincente nel suo recitar cantando. Su On the Run, un brano che inizialmente evocava la fretta inconsulta del mondo dell’epoca (con contributo di Gilmour alla composizione e tentazioni progressive) c’è un flusso di coscienza, legato a un sogno di Waters; la musica si fa strada a tentoni e forse il brano si rivela non del tutto adatto a questo uso, mentre la ripresa di Breathe, che descrive cinicamente la dogmaticità della religione, non aggiunge e non toglie nulla. La successiva Time perde il cantato blueseggiante dell’orginale, ma senza il confronto ovvio sarebbe una buona ballata. The Great Gig in the Sky (la cui parte lirica è comunque sempre stata un breve spoken) dà l’impressione che per evitare una certa magniloquenza si sia finiti in una magniloquenza di segno opposto: la voce è mixata alta, è impossibile non pensare al Lou Reed di The Raven, 2003, o addirittura all’Iggy Pop di Avenue B, 1999. Il testo verte sulla morte di un amico. Money si apre come un blues luciferino di John Campbell, ma senza lo stesso istinto. Il suo 7/4 con passaggio sui 4/4 la inchioda, invece che spingerla avanti: non è “groovy” e il walking bass pare imbrigliato. Le dinamiche, programmaticamente soffuse, sacrificano il tutto. Il recitativo centrale sostituisce il solo di chitarra e sassofono, “Welcome to Hell. Sorry, I’ll read again”, con tanto di risatina, dovrebbe essere una trovata metamusicale, che però risulta telefonata. In Us And Them, i cui accordi furono composti originariamente per la colonna sonora di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni nel 1970, con il contributo di Richard Wright, ritorna in parte la voce del Waters che conosciamo, che ci parla di hybris e conflitto. Anche qui l’arrangiamento è minimale e rarefatto. Il recitativo la fa ancora da padrone in Any Color You Like, composta da Gilmour, Mason e Wright, Forse l’effetto è un po’ troppo compiaciuto. Brain Damage, con un canto più disteso, pare una versione plausibile per l’età del Waters di oggi, sorretta dai cori, e rimanda al suono delle Lockdown Sessions, 2022. Stesso impianto per la finale Eclipse, che però perde completamente l’epos, senza diventare realmente intimista. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, come recita l’Ecclesiaste, e il sole è eclissato dalla luna. Anzi, il brano usa la forma avversativa.

 

Eclissi futura?

Luci e ombre, dunque, assenze ingombranti e una ostentata vitalità, fanno di questo disco un lavoro divisivo, su cui forse solo tra qualche tempo si potrà parlare senza schierarsi tra delusione e partigianeria. Intanto, con le sue intemperanze pubbliche, le sue posizioni spesso estremiste, il suo proverbiale egocentrismo, a suo modo l’ottantenne Roger Waters si è messo in gioco. E non è poco.