Il titolo e le anticipazioni in rete hanno da tempo fatto capire che “Sky blue sky” è il lavoro più pacificato di Jeff Tweedy e compagni. Lui ha detto che è anche il più semplice, ma la semplicità per i Wilco è sinonimo di una ricercatezza elaborata, anche negli episodi più pacati e minimali.
Prevalgono infatti toni pop e folk delicati, con una maggior propensione di chitarre acustiche, piano e lap steel, quasi che la band dopo gli esperimenti degli ultimi album e lo splendido assestamento live di “Kicking television” avesse lavorato in piena armonia. Ci sono canzoni e passaggi, soprattutto di chitarra elettrica, che scappano via irrequieti, ma in generale la scaletta ha un andamento più rilassato.
I Wilco hanno colto quelle leziosità che comparivano in “Yankee hotel foxtrot” e “A ghost is born” e le hanno sublimate. Grandi suoni, come sempre, resi ancora più splendidi dalla scioltezza degli assoli di Nels Cline, da alcune keyboards da fare invidia ai collezionisti e da un paio di interventi di archi.
Non ci sono canzoni che spiccano immediate, ma piuttosto una serie di piccoli gioielli che ammaliano preziosi, carichi di riflessi da intenditori. Complice la sempre pregevole scrittura di Tweedy, ogni traccia si infila sotto pelle per poi sbucare all’esterno puntando verso l’alto: ne è esempio “Impossible Germany” che parte sottile con risvolti aurei per impuntarsi fino a creare un intreccio di chitarre che la rende una canzone d’amore ancora più atipica di quanto già sia.
Jim O’Rourke fa solo qualche comparsa e la produzione è accreditata alla band al completo, ormai stabilizzatasi attorno alla formazione dell’ultimo tour. “Sky blue sky” è difatti un disco meno complesso e più omogeneo: ci sono ballate che poggiano sulla tradizione dell’american music come la title-track, camei acustici di cui innamorarsi e incanti che riportano alla mente i “vecchi” Wilco.
Alcune parti strumentali insinuano accenni di avanguardia pop, ma solo le nervose “Shake it off” e “Hate it here” si concedono scatti completi. Tra i rimandi ci sono Dylan con una “What light” (che prosegue quanto fatto con “Airline to heaven”), i Beatles nella loro fase più Seventies, poi Neil Young, Simon & Garfunkel e chissà cosa ancora, a prova più che altro di quanto l’album suoni classico.
“Sky blues sky” è probabilmente meno importante dei suoi due ultimi predecessori, ma rimane un disco nettamente sopra la media. E, come suggerito dall’immagine di copertina, i Wilco rimangono una band che ama staccarsi dallo stormo. Anche quando si tratta di un “semplice” volo planare.