Giuliano Dottori La vita nel frattempo
2023 - Labellascheggia
L'arte della guerra - Vol. 2, Giuliano Dottori, dopo decine di lavori pubblicati come produttore, varie collaborazioni e altre attività, è tornato con un nuovo disco, La vita nel frattempo, che ha scelto di pubblicare solo su vinile a tiratura limitata di 300 copie in 12’’, pubblicato da Labellascheggia, e in digital download su Bandcamp e iTunes, diffondendo in streaming solo i singoli. Si è trattata di una decisione ben ponderata e “politica”, per cercare di proporre un “nuovo modello economico”, che si basi sul supporto concreto e sul coinvolgimento attivo dei fan, chiamati in prima persona a contribuire per consentire all’artista che amano e seguono di continuare il proprio percorso musicale.
Fil rouge del disco è l’idea di accettazione, dei propri limiti, della perdita, di relazioni la cui fine va appunto accettata senza tornare indietro o pensarci più: “Accettare non significa accontentarsi, ma comprendere a un livello profondo perché le cose molto spesso non vanno nella direzione che vorremmo. O, ancora meglio, comprendere che era sbagliata l’aspettativa, non il risultato. Accettare significa soprattutto chiudere i cerchi e ripartire più forte”, spiega Dottori, che questa volta, per tornare a far musica in prima persona quasi al 100%, ha suonato da solo tutte le canzoni, eccezion fatta per qualche elemento ritmico in qualche pezzo, ovvero la batteria di Mauro Sansone in America, Americae, l’additional drum programming di Simone Sproccati su È meglio lasciar stare e Il grande Drago Verde e infine le percussioni di Zeno Dottori nella title track.
Nonostante qualche punta di umanissima amarezza (“la fortuna che ho avuto non mi è servita a niente / di una medaglia sul petto non me ne faccio niente”), l’idea di accettazione non deve far pensare alla rassegnazione, ma alla maturità, che potremmo riallacciare in fondo, banalmente, al motto coniato dal teologo protestante Reinhold Niebuhr e utilizzato nei gruppi di auto-aiuto, ovvero la preghiera “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”. Insomma, le parole di questo disco (dalla prospettiva invece totalmente laica, ovviamente) sono anche e soprattutto frutto di resistenza, anche alla noia del vivere, e di saggezza, che conduce a non farsi condizionare dalle aspettative, o da sogni così grandi che fanno sanguinare. La saggezza inoltre contribuisce in qualche modo alla certezza che dopo ogni temporale tornerà il sereno, che “scioglie la rabbia”, e che “questo nero prima o poi finirà”. Si ha così davanti una “porta chiusa sul dolore / che non senti più”.
Il lavoro mescola elettronica e dimensione acustica, con sonorità che passano da momenti rasserenanti a qualche acme di tensione (come la tempesta di arpeggiatori che spezza il singolo Addio sogni di gloria), in un alveo sperimentale ed esterofilo che rammenta un punto di riferimento dichiarato come il Bon Iver di 22, A million, certe atmosfere di Sufjan Stevens, l’intimismo malinconico di Julien Baker, ma ancora di più la morbidezza cinematica e le alchimie elettroacustiche di un’altra fonte di ispirazione recente, Patrick Watson. Ma ovviamente tutti questi elementi sono amalgamati in modo personale in uno stile in movimento, ma pur sempre molto riconoscibile, nel cantato (che sperimenta anche momenti in falsetto molto intensi e coinvolgenti), nel mood, nella cura dei suoni folktronici e nei versi, che alternano immagini semplici ed efficaci a pensieri che hanno il calore del vissuto personale e a momenti in cui si è provato per la prima volta a “improvvisare” un flusso di parole, in modo più istintivo, o un parlato con cui mettersi a nudo con schietta naturalezza, come in un racconto agli amici o un memo vocale per sé: è il caso del sogno di ambientazione familiare narrato nell’essenziale e insieme struggente traccia conclusiva, Radisson, Baie-James, dal nome – sembrerebbe – di un motel di una piccola località del Québec, in linea e in “omaggio” alle proprie origini canadesi (Giuliano è nato infatti a Montréal nel 1976, anche se vive da sempre a Milano).
Si ascoltano nell'album sprazzi dal fascino più acustico e folk, synth e melodie vocali setose, con spruzzate carezzevoli quasi soul/r’n’b e aperture pure un po’ più melodiche (l’ottima, raffinata È meglio lasciare stare), mentre talora la combinazione di chitarra acustica e pianoforte in primo piano assume un afflato e uno spessore cantautorale (Il grande Drago Verde), mentre in sottofondo si ascolta un drum programming minimale; altre volte, infine, fulcro del brano è un piano molto elegante, che sgocciola intimo.
In queste canzoni si nuota in una malinconia sintetica e vischiosa, che però finisce per cullare i pensieri e rassicurare, tra soundscape delicati e/o rarefatti, eppure dalla concretezza emozionale quasi tangibile.
Un disco che mostra una volta in più il talento di un cantautore e di un produttore di grande classe, da non dimenticare.
A otto anni dall’ultimo album, Fil rouge del disco è l’idea di accettazione, dei propri limiti, della perdita, di relazioni la cui fine va appunto accettata senza tornare indietro o pensarci più: “Accettare non significa accontentarsi, ma comprendere a un livello profondo perché le cose molto spesso non vanno nella direzione che vorremmo. O, ancora meglio, comprendere che era sbagliata l’aspettativa, non il risultato. Accettare significa soprattutto chiudere i cerchi e ripartire più forte”, spiega Dottori, che questa volta, per tornare a far musica in prima persona quasi al 100%, ha suonato da solo tutte le canzoni, eccezion fatta per qualche elemento ritmico in qualche pezzo, ovvero la batteria di Mauro Sansone in America, Americae, l’additional drum programming di Simone Sproccati su È meglio lasciar stare e Il grande Drago Verde e infine le percussioni di Zeno Dottori nella title track.
Nonostante qualche punta di umanissima amarezza (“la fortuna che ho avuto non mi è servita a niente / di una medaglia sul petto non me ne faccio niente”), l’idea di accettazione non deve far pensare alla rassegnazione, ma alla maturità, che potremmo riallacciare in fondo, banalmente, al motto coniato dal teologo protestante Reinhold Niebuhr e utilizzato nei gruppi di auto-aiuto, ovvero la preghiera “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”. Insomma, le parole di questo disco (dalla prospettiva invece totalmente laica, ovviamente) sono anche e soprattutto frutto di resistenza, anche alla noia del vivere, e di saggezza, che conduce a non farsi condizionare dalle aspettative, o da sogni così grandi che fanno sanguinare. La saggezza inoltre contribuisce in qualche modo alla certezza che dopo ogni temporale tornerà il sereno, che “scioglie la rabbia”, e che “questo nero prima o poi finirà”. Si ha così davanti una “porta chiusa sul dolore / che non senti più”.
Il lavoro mescola elettronica e dimensione acustica, con sonorità che passano da momenti rasserenanti a qualche acme di tensione (come la tempesta di arpeggiatori che spezza il singolo Addio sogni di gloria), in un alveo sperimentale ed esterofilo che rammenta un punto di riferimento dichiarato come il Bon Iver di 22, A million, certe atmosfere di Sufjan Stevens, l’intimismo malinconico di Julien Baker, ma ancora di più la morbidezza cinematica e le alchimie elettroacustiche di un’altra fonte di ispirazione recente, Patrick Watson. Ma ovviamente tutti questi elementi sono amalgamati in modo personale in uno stile in movimento, ma pur sempre molto riconoscibile, nel cantato (che sperimenta anche momenti in falsetto molto intensi e coinvolgenti), nel mood, nella cura dei suoni folktronici e nei versi, che alternano immagini semplici ed efficaci a pensieri che hanno il calore del vissuto personale e a momenti in cui si è provato per la prima volta a “improvvisare” un flusso di parole, in modo più istintivo, o un parlato con cui mettersi a nudo con schietta naturalezza, come in un racconto agli amici o un memo vocale per sé: è il caso del sogno di ambientazione familiare narrato nell’essenziale e insieme struggente traccia conclusiva, Radisson, Baie-James, dal nome – sembrerebbe – di un motel di una piccola località del Québec, in linea e in “omaggio” alle proprie origini canadesi (Giuliano è nato infatti a Montréal nel 1976, anche se vive da sempre a Milano).
Si ascoltano nell'album sprazzi dal fascino più acustico e folk, synth e melodie vocali setose, con spruzzate carezzevoli quasi soul/r’n’b e aperture pure un po’ più melodiche (l’ottima, raffinata È meglio lasciare stare), mentre talora la combinazione di chitarra acustica e pianoforte in primo piano assume un afflato e uno spessore cantautorale (Il grande Drago Verde), mentre in sottofondo si ascolta un drum programming minimale; altre volte, infine, fulcro del brano è un piano molto elegante, che sgocciola intimo.
In queste canzoni si nuota in una malinconia sintetica e vischiosa, che però finisce per cullare i pensieri e rassicurare, tra soundscape delicati e/o rarefatti, eppure dalla concretezza emozionale quasi tangibile.
Un disco che mostra una volta in più il talento di un cantautore e di un produttore di grande classe, da non dimenticare.