Epsilon Indi Wherein We Are Water
2012 - BitBazar/Audioglobe
Se i Pink Floyd fossero nati vent’anni dopo e oltre, probabilmente avrebbero potuto avere un suono molto simile a quello degli Epsilon Indi, band romana nata nel 1987 dalla fusione tra una compagnia di teatro-danza e un gruppo musicale dalla sensibilità degna del migliore Waters, ma con inclinazioni neoprogressive e sinfoniche. Sì, perché la musica fortunatamente sa ancora disorientare e allora ti accorgi che, quando ogni definizione sta stretta per definire un’opera, probabilmente sei di fronte a qualcosa di nuovo o fortemente innovativo.
Il collettivo si rimette nuovamente in gioco, questa volta con un concept album, puntando sulla lingua inglese e su un incantevole charme. Space rock, dream pop, chamber pop, art rock: tutto vero. Questa musica come un pesce migratore sembra apprezzare sia i mari freddi e i venti secchi del nord sottoforma di echi elettronici e sonorità rarefatte, tipico marchio di fabbrica islandese, sia quelli caldi e mediterranei del sud con tutta la loro carica di classicità e accezione melodica.
Insomma cosa succede quando ci si accorge di essere di fronte a un capolavoro? Smarrimento o senso d’inadeguatezza, che poi si trasforma con il tempo in perfetta simmetria e rotondità del suono. Tutto questo certo, ma anche il recupero di un concetto di bellezza essenziale. Dimenticatevi la sindrome da eclettismo, che spesso attanaglia le nuove proposte risultando alla fine uno sfoggio di leziosità e pomposa ridondanza. Solo contemplazione e la sensazione di essere in apnea nella profondità dei mari. Densità, ma anche cacofonia ovattata e poi liberata all’interno di una geniale strategia minimal in apparenza uniformante.
L’iniziale Dawn è un esempio concreto di coraggio, talento e misurato anticonformismo paragonabile solamente alla singolarità di un Sufjan Stevens. Pezzo splendido, ipnotico, ma garbato nella sua ricchezza; in apertura come pochi avrebbero fatto. Perfetto connubio tra corde di chitarra pizzicate e piccoli tasti di pianoforte appena sfiorati su cui volano le mani. Infine, a impreziosire la melodia con eleganza, la voce cangiante e in questo caso suadente di Alex Romagnoli. Un esempio fulgido di compatibilità con ogni cambio di registro dell’album. Le stesse Shine oThe Rainbow’s End sono un altro modo per dire classico, se consideriamo il prog anni settanta come tale, e contaminato. Impossibile tralasciare Clouds And Other Things una liturgia, gospel nello spirito, che porta a esplorare gli abissi mentali tra commozione e claustrofobica follia.
Il tutto scorre su un binario perfettamente tracciato e puntuale in ogni suo “scarto”. Mi vengono in mente i Wild Beasts, ma anche Album Leaf per fluidità di approccio e disinvoltura. Ma la domanda è lecita: com’è possibile per una realtà del genere rimanere per così tanto tempo sottotraccia? Per fortuna che i Dead Can Dance non sono nati in Italia!