Davide Giromini Manifesto post-pop
2022 - Materiali sonori
E’ un fatto che Davide Giromini sappia come tenere la penna in mano, accendere le strofe col cervello, immune da medietà e didascalismi. Il suo prosare fluviale, occhieggia a evocazioni più che a ermetismi, padroneggia il tazebao quanto l’aforisma filosofico, il mitismo cantautorale come il poetare per libere associazioni apparenti del primo Franco Battiato. Manifesto post-pop comincia allora dove finisce il realismo para-letterario della migliore scuola cantautorale, lo aggiorna al naufragio globalista, lo transustanzia in claustrofobismo, dolore, in qualche caso disillusione. Il pianetoide dell'apocalisse pop-ideale ripreso e rappreso nel cd, è l'ex pianeta del crepuscolo e insieme della fuga dalla realtà. Secondo le direttive di fuga dall’ideologia, dell’adesione sterile alle droghe, nei casi più estremi persino attraverso un visionarismo alieno da sub televisione (Malanga, Biglino, Malanga recital). Manifesto post-pop è insomma il disco della perdita di senso e della sconfitta collettiva, un concept claustrofobico che tra profluvi di locuzioni proprie, citazioni altrui, refoli di (auto)ironia si affaccia sull’abisso del no-future.
Comunisti del terzo millennio scalfisce, irriga e declina visivamente la coscienza di chi ci credeva e di chi ci crede ancora (non certo l'attuale fascio-sinistra): “…paghiamo caro in società la Cina Cuba ed il Vietnam tra un altro sciopero e Stakanov tra 100 fiori nei cannoni e 100 molotov noi non sappiamo neanche più chi siamo (…) compagni lasciamo stare è un fatto di seduzione non di scelte alla Mara Cagol non di fabbriche e occupazione non di fasci e capitalismo non di falci e rivoluzione ma bolscevismo futurismo è un fucile e un berretto che vola in qualche canzone”. E la ripresa acustica di Manifesto metastorico individuale, in un mondo diverso dal mondo dove vige l’unanimismo di pensiero, dovrebbe (potrebbe) funzionare come introduzione a libere letture di (contro)storia: “La storia ci appartiene solo in parte e quella parte non è storia per i libri della storia la storia in quanto tale deve essere raccontata e quindi taglia seleziona falciatrice di esistenze non perdona chi non fa qualcosa di importante per il bene per il male non importa la storia nella storia ci si nuota per negare a sproposito parlare di politica non tenendo conto poi che il tempo è solamente quell’eterno istante e nulla si ripete e nulla parte la storia se non lo sapete evitate congetture evitate le bandiere soprattutto non mettetevi a sedere su nozioni non sicure come il male come il bene ottime intuizioni per dividere l’insieme”.
I testi di Giromini costituiscono insomma l’anamnesi esatta dello sfacelo globalista, ma più che savonarolici rimbombano come caratura dolente del cronachismo del dopo-bomba (dis)valoriale. Di nuovo: tra smarrimenti generazionali [“Siamo tutti vissuti senza essere nati siamo uomini di latta e leoni umiliati siamo spaventapasseri morti dentro il giro sbagliato di corvi insetti e zanzare”, Manifesto post-pop (politico esistenziale)] e (ironici) dileggi coniugati in rivendicazione politico-musicale (“Quando ascolto Alessio Lega/ penso alla gente cazzo gliene frega/ di cantanti censurati e di anarchici incazzati Malatesta e Bakunin (…) Quando provo a emanciparmi casco dentro l’astrattismo in Rocco Marchi/ devastati dai Negroni di Canterbury e Dusserdorf e dai Carmina di Orf/ suoneremo un synth malato su di Ulriche Meinhoff/ Ecco che ringiovanisco fino al cuor della rivolta canta Cisco/ finalmente Che Guevara io ritorno al combat folk/ ma poi salgo sulla Porche nel mio sogno miliardario inoculato da un vaccino contro il pop, in La mia personale storia della canzone impegnata). Da una fuga esistenziale [Fuga da Sanpa (cane e Sert)] alla denuncia di un odio sociale divenuto capillare, da che governo Draghi è stato governo Draghi (L’odio): “L’odio scrive un alfabeto con le pieghe della faccia/ L’odio passa da uno stadio fra le pagine del Mein Kampf/ L’odio parte da uno stadio per finire fra le righe del Mein Kampf".
Sostenuta musicalmente da Giovanni Biancalana (basso), Giulia Giannetti (flauti traversi), Steve Lunardi (violini), e dalla voce e i cori di Selenia Zabaroni, l’esegesi della Fine si srotola tra le tracce del Manifesto post-pop di Geromini per mezzo di una scrittura formalmente ruvida-lucida-barocca-lisergica al contempo, opportunamente restituita (nel booklet) senza punteggiatura. Un richiamo implicito al taglio sperimentale-militante di Nanni Balestrini. Un riflesso allucinato della corsa senza scopi - nell’autodromo finto-dorato e ultra-vaccinato del neocapitale - a cui ci hanno iscritti. Più militante e disalienante di così.