
Crime & The City Solution the killer
2023 - Mute
Il progetto, fondato nel 1977 e terminato una prima volta senza registrazioni, è attivo dal 1983, con una lunga pausa tra il 1990 e il 2011 – lasso di tempo coperto dalla produzione solista di Simon Bonney, unico membro stabile.
Lo stile, che all’inizio (Room of Lights, 1986) comprendeva un compendio di blues elettrico e post-punk, ammantato di atmosfere solenni e basato sul cantato declamatorio, sporco e sciamanico di Simon Bonney (tra i Doors e i Cult, per intenderci, ma non refrattario agli esperimenti dei compagni di scuderia quali Nick Cave o Hugo Race), si è via via (r)affinato, per giungere a un alt-rock non scevro di influenze country-folk, presenti nei dischi solisti del leader dopo il trasferimento in America.
Dopo l’apice di The Adversary (1993), il live di commiato registrato a Parigi, con l’aggiunta del brano omonimo composto per Fino alla fine del mondo di Wenders, in cui la resa live univa la perfezione dei Pink Floyd alla visceralità dei These Immortal Souls, l’unica uscita a nome del gruppo ha fatto seguito alla reunion con line-up rinnovata: si tratta del discontinuo American Twilight (2013), a cui l’album presente rimanda in più di qualche aspetto. Ora, la band – dopo altri cambi di formazione che hanno visto transitare Jim White e Eugene Edwards – torna con un album la cui comprensione non può prescindere da quanto detto in precedenza.
The Killer è un disco sui nostri tempi, quindi inquieto e ondivago; riassume il passato, individua una sua visione del presente, rimanda a un possibile futuro. Però, purtroppo, la qualità dei brani non è costante e qualcosa pare girare a vuoto.
L’iniziale Rivers of Blood ricorda, nella linea melodica sonnolenta, un certo Mike Johnson (compagno di scorribande musicali di quel Mark Lanegan che ebbe a dire che indicò Simon Bonney quale suo cantante prediletto). La pausa centrale con la ripresa della canzone praticamente identica alla prima parte non aiuta a fugare una lieve noia. Hurt You, Hurt Me parte guidata dalla viola di Bronwyn Adams, poi il cantato corale appesantisce il tutto. River of God riporta un po’ delle chitarre vagamente ossessive dei tempi di Paradise Discoteque (1990), ma la melodia pare derivare dal Bonney solista di Ravenswood (1992). Il recitativo stratificato porta tutto quasi in territori caveiani, ma nell’arrangiamento si sente l’assenza di Harvey. Brave Hearted Woman, con la sua elettronica ruvida, rappresenta un cambiamento che funziona solo a metà, ma dimostra vitalità. Il ritornello, di nuovo, affossa un po’ il tutto: i cori femminili paiono essere la parte meno efficace del disco. La (quasi) title track Killer è un monologo a tratti concitato, a tratti placido e profondo, che minaccia di esplodere e si raffredda ancora con la voce femminile e un organo doorsiano (mentre Bonney pare omaggiare Nico: “take me back to desert shore”): le linee melodiche sono troppe per non sfilacciarsi. I cori ricompaiono un po’ stucchevoli, in falsetto, anche nell’altrimenti intensa e meditativa chiusura di Peace in My Time, guidata da un piano rarefatto e dalla viola fino all’ingresso di una batteria marziale contornata da mallet e piatti in funzione orchestrale, con un Bonney accorato e insieme misuratissimo.
Luci ed ombre, insomma, in un ritorno forse troppo atteso per non portare qualche delusione, ma anche un’opera necessaria e sentita, una preghiera per la pace nella mente del singolo e nel mondo, una descrizione – come spiega il comunicato stampa – della “normalità che esiste nelle situazioni che considereremmo straordinarie”: un album che si lascia alle spalle le coloriture gotiche e il maledettismo per riflettere sui conflitti, sulla violenza e anche sulla pace stessa, nonostante la figura centrale sia quella dell’Assassino: Simon Bonney cerca ispirazione sulla sua nuova professione di aid programmer, intrapresa dopo un dottorato ottenuto in piena epoca pandemica, con conseguente trasferimento in Thailandia e ci racconta senza pietismi un mondo incomprensibile ma anche ancora capace di bellezza.