Sanremo 2024

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Sanremo 2024 Una poltrona per cinque: tempo di bilanci finali

11/02/2024 di Autori vari

#Sanremo 2024#Italiana#Pop

Bilancio finale di Arianna Marsico, Barbara Bottoli, Giovanna Mentasti, Paolo Ronchetti e Sara Velardo, (forse) ultimo dell'era Amadeus, che ha sovraffollato il palco di artisti radiofonici, ha portato i giovani dietro gli schermi e sul palco, ci ha permesso di ascoltare parole importanti o ha dispensato momenti da villaggio turistico. Cosa salvare di quest'edizione?

Arianna Marsico


Dovrebbe essere l’ultimo anno in cui il Festival di Sanremo è stato condotto da Re Sole Amadeus. Cosa per certi versi auspicabile, dato che sembrano essere emersi certi limiti.

In primis trenta cantanti. Troppi per pensare che ci sia stato un minimo di selezione e in qualche caso viene da pensare come fosse possibile proprio non ci fosse qualcun altro più meritevole, sì con un brano orecchiabile e da playlist Spotify, ma comunque in grado di cantare meglio. E poi la gestione dell’ormai famigerata gag del Ballo del qua qua con John Travolta, con un certo nervosismo in conferenza stampa e diverse ombre da chiarire (nelle opportune sedi, non certo in queste righe o sui social) sulla presunta pubblicità occulta e non solo.

Peccato, perché tutto ciò rischia di mettere in ombra momenti di grandissima intensità emotiva, e per i quali vanno riconosciuti ad Amadeus la sensibilità e il merito di aver dato una così ampia platea a temi importanti.  Mi riferisco soprattutto agli interventi di Daniela Di Maggio, la mamma di GiòGiò Cutolo (il giovane musicista ucciso per futili motivi a Napoli), e di Giovanni Allevi, incredulo e grato di essere vivo, e di poter suonare ancora. Le parole di entrambi straziano il cuore, commuovono.

E davvero non si capisce come quello stesso pubblico presente all’Ariston in queste occasioni abbia poi fischiato pesantemente Geolier la sera della sua vittoria per le cover. Per quanto ci fossero indiscutibilmente interpretazioni più degne di nota, da Angelina Mango ad Alfa e Roberto Vecchioni, passando per Annalisa e La Rappresentante di Lista, basterebbe leggere il regolamento per capire che il televoto premia chi ha una fanbase più attiva (che magari Fiorella Mannoia, pur meravigliosa, non ha). Ma i fischi mostrano che per certi versi il Festival di Sanremo è lo specchio del Bel Paese “un paese di musichette mentre fuori c'è la morte”, come direbbe Willie Peyote. Quindi un paese che usa le regole a proprio uso e consumo e che ingigantisce cose che hanno il loro peso relativo trascurando tragedie ben più grandi, ricordate invece da Ghali e Dargen D’Amico. Le regole sono quelle (e la sera della finale pesano i voti di tutti e tre le giurie), “Sanremo è Sanremo” e partecipare è già una vittoria. 

Quest’anno vince Angelina Mango, forse ancora acerba in alcune cose, ma con una bellissima voce e la capacità di omaggiare in modo non banale suo padre Pino Mango. E un sorriso e uno sguardo che fanno sperare in tante cose belle.

Editoriale con riflessioni sulla vittoria di Angelina Mango, a cura di Ambrosia J. S. Imbornone



Barbara Bottoli

 Si è sempre considerato il Festival di Sanremo un carrozzone, è la settimana degli eccessi, dei sogni, delle speranze, ma in questo 2024, sarà stata la vicinanza col Carnevale, sarà l'anno bisestile, ma si è un po' persa di vista la situazione.

Personalmente considero il Festival la settimana della musica, immagino questa grande macchina artistica che si muove dalle note alle acconciature con un grande investimento economico ed emotivo prima dell'evento e dopo negli ascolti, nei live e nelle visualizzazioni, ma quest'anno più degli altri anni ci ho visto solo l'industria, il profitto senza spontaneità.

L'unico momento emozionante è stato durante le cover nell'accoppiata generazionale Vecchioni-Alfa che con Sogna, ragazzo, sogna hanno trasmesso la semplicità di due persone collegate davvero dalla musica con la forza di farsi da parte per lasciare spazio all'altra persona, senza voler giocarsi le inquadrature, senza scommettere sul look, sull'eccentricità (v. egocentricità): in cinque serate, ciascuna quasi più lunga di un turno di lavoro, solo tre minuti di verità? Ne è valsa la pena?

Sicuramente Amadeus si è divertito, indubbiamente ha vinto radiofonicamente, perché in 30 brani, per un motivo o per l'altro, che sia l'orecchiabilità che sia il nome dell'artista che si porta dietro la sua crew social, almeno almeno 27 li sentiremo come una tortura sino all'inizio dell'estate, quando almeno 10 di questi stessi prodotti dell'intelligenza economica usciranno con un nuovo tormentone.

La classifica finale è scontata per i premi della critica e deludente come punteggi: una volta ci si chiedeva se si sarebbe comprato l'album che conteneva il singolo sanremese; oggi si parla di visualizzazioni, ma io guarderei o ascolterei in loop di mia spontanea volontà uno dei brani vincitori? NO.

Si è cercato di accontentare tutti, richiamando il pubblico giovane che, se non si proseguirà in questa formula, per la prossima edizione non ci sarà più, si sono presentati brani mischiando dance-pop e un tema sociale sullo sfondo in maniera totalmente ipocrita, dimenticando l'orchestra e l'importanza delle parole, promuovendo loghi in una pubblicità silente in un'ottica meramente commerciale: c'era il Festival che cercavo? NO

Si sono alternati piccole meteore dei talent a nomi vetusti, che hanno più energia della potenza energetica di una centrale e a ospiti che sembravano vendersi per essere un elenco dei partecipanti nella festa di Amadeus, elevando i co-conduttori che, proprio per la loro discrezione e completezza, hanno brillato.

Ripensandoci appare strano che in un totale di 30 ore (percepite 2589 ore) di diretta la serata che si ricorda sia quella delle cover, nella quale i brani proposti sono per lo più del secolo scorso e i “duetti” abbiano richiamato gli artisti che sono ancora tali. È un Festival che ricorderemo? NO

Il podio è quello che mi aspettavo? NO, poi chiaramente è personale e i voti personali sono diversi dalla loro somma e la mia classifica aveva Diodato per la coerenza, Loredana Bertè per lo sguardo sereno per la sua riappacificazione personale e Mahmood perché era il brano che ho canticchiato la mattina dopo e che all'Eurovision avrebbe tenuto alta la bandiera italiana.

Avendo risposto NO al 100% delle domande l'unica consolazione è che l'era Amadeus è finita e l'augurio che faccio al Festival, che resta la mia settimana dell'anno, è che inquadri ancora e sempre la musica italiana.



Giovanna Mentasti

Il Festival di Sanremo è un fenomeno divisivo solo se non si è in grado di accettare la sua portata sociale e culturale. I dati parlano chiaro: dal 65% di share della prima serata fino al 71% della finale, decine di milioni di italiani hanno scelto di passare le proprie serate in compagnia del pubblico dell’Ariston. Queste cifre esorbitanti, che certo riguardano uno spettacolo che da 74 anni contribuisce a definire la nostra identità nazionale, sono anche in gran parte da imputare alla sua più recente direzione artistica.

Nella sua (forse) ultima edizione, Amadeus raccoglie i frutti di cinque anni di un lavoro che ha trasformato Sanremo nell’essere un vero e proprio agglomerato transmediale, che si espande dalla televisione, alla pubblicità, alla stampa, e soprattutto nei social media. Suo è il merito di avere dato voce e portato davanti e dietro agli schermi televisivi una generazione che pretende di essere rappresentata, attraverso il coinvolgimento di cantanti esordienti e mainstream.

Non sorprende del tutto, dunque, un podio composto da due ventenni e l’icona pop dell’anno, seguiti da un cantante che si è esposto attraverso il suo brano anche sul piano sociale. È diventato un Festival musicalmente lanciato verso l’Eurovision e il successo globale, senza però dimenticare lo spettacolo, l’intrattenimento alla portata di tutti, dove anche le gag più sfacciate e peggio riuscite vengono rivendicate con ironia. Sanremo siamo noi, nel bene e nel male, che ci piaccia o meno. E non è possibile parlare di media senza trattare questo evento con la giusta considerazione.
 



 

Paolo Ronchetti

La cultura di base dei conduttori che oggi vanno per la maggiore è quella legata al loro imprinting di animatori da villaggio turistico. Da lì è cresciuta una generazione di intrattenitori che hanno come unico obbiettivo (anche culturale) il “su le mani”, la “standing ovation”, la battuta pronta più o meno riuscita. A questo modello si è uniformato il gusto del pubblico, che ormai da trent’anni cerca esattamente questo nella vita, nelle relazioni e nel proprio tempo libero. Il modello televisivo da televisione commerciale ha fatto il resto. “Sanremo”, questo modello di “Sanremo”, risponde perfettamente a ciò che siamo diventati come consumatori. Inutile lamentarsi con Amadeus e Fiorello, che nel “giro” sono assolutamente tra i meno peggio! Questo si vuole e questo funziona. (E ricordiamoci che gli obbiettivi di marketing Amadeus li ha centrati tutti in grande abbondanza anche grazie a tutti noi!)

Non bisogna pensare MAI, e oggi più di sempre, che Sanremo possa essere veicolatore di altro. Può esserlo solo accidentalmente e non dobbiamo mai pensare che queste briciole siano l’obbiettivo di questi prodotti.

Per la musica Sanremo 2024 è stato un anno tremendo come mai. Si salvano la freschezza di Angelina Mango a cui basta un prezioso scarto di Madame e il fiuto di Dardust per conquistare. La promessa e la passione di Alfa; le conferme della voce di Diodato e dello strano mix di Dargen D’Amico. La scrittura di Gazzelle e l’alienità totale e preziosa di Mahmood. Nulla di cui strapparsi i capelli. Il minimo per non strapparsi le vesti e sperare in un miracolo prossimo venturo, anche se sappiamo che non avverrà.




Sara Velardo

Domenica 11 febbraio 2024, mi sveglio con Fiona Apple che canta:
Give us something familiar/ Something similar/ To what we know already/ That will keep us steady/ Steady going nowhere”.
Dacci qualcosa di familiare, qualcosa di simile a quello che conosciamo già, che ci mantenga stabili mentre ci dirigiamo verso il nulla.

Gli ascolti parlano chiaro: anche il pubblico di Sanremo la pensa così e il festival si è adeguato alla nuova regola del mercato musicale: non proporre, ma accontentare.

Nonostante l’inclusione di qualche brano con tematiche sociali, abbiamo assistito a un appiattimento generale delle composizioni; tormentoni pop da cantare al primo ascolto, niente che ti afferri veramente lo stomaco.

Per sentire qualche brivido sulla pelle abbiamo dovuto aspettare la serata delle cover, a dimostrazione che sul palco i bravi interpreti c’erano, ma mancavano le canzoni.

Amadeus chiude il suo ultimo festival con una chiara dichiarazione di intenti: intrattenere, distrarre e volare basso.

Nessun ospite scomodo, nessun concorrente sovversivo, nessun brano memorabile.

Vince la noia, appunto.

La sala stampa si scaglia unita contro il voto popolare che avrebbe voluto vincitore Geolier, che però porta un brano debolissimo, e avrebbe avuto come unico merito quello di essere bandiera di una parte di Italia che cerca riconoscimento e venera i propri eroi.

Neppure Angelina Mango vince grazie al suo brano (che non è tra i migliori del festival), ma grazie alla forza del legame che è riuscita a creare con il pubblico: per le lacrime, per le cadute, per il suo giovane talento, per la voce che trema; a dimostrazione che in fondo, più che di tormentoni, forse abbiamo bisogno di emozioni.



Le prime pagelle dei brani di Sanremo 2024

Le pagelle della serata delle cover e delle canzoni in gara. E le Top10 di Mescalina

Credits foto (oltre alle copertine dei singoli):
Foto Angelina: fonte pagina Facebook
https://www.facebook.com/photo?fbid=824706913006233&set=a.422862239857371
Foto Alessandra Amoroso: fonte Ufficio Stampa ON – Out Now
Foto Il Tre: fonte Warner Music
Foto Santi Francesi di Mattia Guolo, fonte Ufficio stampa About srl
Foto Emma di Bogdan @Chilldays Plakov, fonte Ufficio Stampa Emma, Tatiana Lo Faro
Foto Dargen D’Amico di Sara Scanderebech, fonte Coco District (Alessandra Gennaro)
Foto Alfa di Filiberto Signorello, fonte Ufficio stampa MA9Promotion