BAWDY BLACK PEARLS<small></small>
Jazz Blues Black • Blues

Veronica Sbergia BAWDY BLACK PEARLS

2023 - Bloos Records

05/06/2023 di Aldo Pedron

#Veronica Sbergia#Jazz Blues Black#Blues

Veronica Sbergia, cantante e musicista affascinante, effervescente ed eclettica, oltre al consolidato sodalizio in arte e nella vita con il compagno e maestro Max De Bernardi con cui ha inciso svariati dischi, ha portato avanti di recente due progetti collaterali che ancor più la inseriscono nella “Mecca” delle artiste italiane. Dopo l’album Shake Your Shimmy come The Jolly Shoes Sisters con l’eccelsa Laura Fedele (Abeat Records, 2022), ecco Bawdy Black Pearls per la romana Bloos Records di Simone Scifoni, a sua volta polistrumentista e titolare di una “label” indipendente ed artigianale che di recente ha pubblicato diversi dischi e un piccolo catalogo degno di nota, per cui vi invito a visitare il sito della sua etichetta.

Veronica non svolta bruscamente o imprudentemente verso altri lidi, bensì rimane a suo agio nell’ ambito musicale a lei più congeniale e dove il blues, il jazz, vanno a braccetto con l’old time-music, okum, ragtime, barrelhouse e country-blues.

La peculiarità di questo disco però pesca Veronica Sbergia in un chiaro fil-rouge a omaggiare alcune delle sue muse ispiratrici, le blueswomen soprattutto del periodo del blues pre-war o tra le due guerre (anni ‘20, ‘30, ‘40).  Le donne indomite che usarono il blues come mezzo per raccontare la verità, per gridare forte cosa significasse essere donne ed essere afroamericane. Le donne del blues di quegli anni erano forti, sexy, aggressive, ribelli, dissacratrici, spirituali, femministe ante litteram, contro tutti e contro tutto e non si vergognavano certamente dei loro desideri e bisogni (corpo e sesso).  Sentimenti bene espressi e derivanti dalla loro negritudine e dalle loro chiare rivendicazioni di indipendenza e libertà.

Nessuno poteva apostrofarle e dir loro come vestirsi, comportarsi o cosa fare. Sto parlando di Sister Rosetta Tharpe, Bessie Smith, Ma Rainey, Elizabeth Cotten, Sippie Wallace, Memphis Minnie, la misteriosa Geeshie Wiley, Victoria Spivey, Bertha Chippie Hill, Lucille Bogan, Alberta Hunter, Mamie Smith, Trixie Smith, Clara Smith, Ruby Glaze, Georgia White, Julia Lee, Bea Foote, Yack Taylor, Viola McCoy, Little Mae Kirkman, Lottie Kimbrough. Donne, artiste e protagoniste degli anni ’20 e decenni immediatamente successivi, che con le loro canzoni parlavano dei propri sentimenti, anche quelli più intimi, di violenza, libertà, omosessualità, resilienza, religione, sesso, morte e rinascita, gridando le proprie paure e il proprio dolore. 

Veronica Sbergia celebra, canta e interpreta alcune di loro già da me citate ed altre ancor più sconosciute, ma altrettanto brave, decisive, importanti ed essenziali nella lunga, arcaica e fondamentale storia del blues, anche se la storia stessa spesso le ha sommerse o ignorate. Un gioco ben orchestrato dalle menti bianche, che seppero sfruttarle, sviarle, sfruttando per loro tornaconto e a loro piacimento il momento storico.

Si parte dalla copertina e dalla grafica di questo nuovo lavoro realizzato da Roberta Maddalena Bireau, artista visiva, illustratrice, art-director e musicista che vive a Berlino e dedica la sua creatività a progetti internazionali, volti spesso a sensibilizzare su tematiche sociali contemporanee. Un design progettato con la stessa Veronica Sbergia con una bocca spalancata e colorata nella quale appare in miniatura una blueswoman con tanto di chitarra.  “Bawdy Black Pearls” sta per “perle nere oscene o licenziose”, ovvero le nostre grandi artiste, qui magnificamente rappresentate e omaggiate da Veronica. Un tributo alle donne del blues in cui Veronica al canto viene coadiuvata in primis da Simone Scifoni al piano elettrico e washboard (musicista, produttore discografico e label manager) in tutti i brani, Lino Muoio al mandolino, Mauro Porro al clarino, Max De Bernardi alla chitarra acustica, Dario Polerani al contrabbasso in tre brani e Lucio Villani al contrabbasso in Ma Rainey’s Black Bottom.

Veronica s’immedesima in queste 12 canzoni, in cui emergono l’eccellenza della sua voce, il suo stile interpretativo e il pianoforte in stile barrelhouse di Simone Scifoni, strumento chiave e guida primordiale ed essenziale (non c’era ancora la chitarra amplificata).

Un disco, Bawdy Black Pearls, in cui appare evidente e riuscito lo stile pianistico barrelhouse, un genere praticato originariamente nelle ruvide taverne (per l’appunto barrelhouses) dei campi di boscaioli del Sud e Sudovest degli Stati Uniti e che ha preceduto e affiancato il boogie-woogie. Citiamo alcuni maestri come Jimmy Yancey, Roosevelt Sykes, Cripple Clarence Lofton e più tardi Otis Spann e naturalmente le “reginette del blues”.

Veronica Sbergia si sente perfettamente a suo agio e s’impadronisce di un repertorio pre-bellico di stili e canzoni “barrelhouse”, “ragtime” e “hokum”, un particolare tipo di canzone della musica blues americana, una canzone umoristica, che utilizza analogie estese o termini eufemistici per creare allusioni sessuali. Questo tropo e translato risale alle prime registrazioni blues del periodo prebellico.

Ecco l’album nei dettagli.

L’iniziale Stavin’ Chain incisa da Lil Johnson nel 1937 (data di nascita e di morte sconosciuta e nessuna foto esistente) così come Stavin Chain Blues (That Rockin’ Swing) di Big Joe Williams (un brano differente non qui presente, ma con lo stesso concetto) è primordiale, l’essenza dei primi anni del blues e del jazz.  Secondo Alan Lomax che intervistò Jelly Roll Morton, uno “Stavin’ Chain” è un “pimp”, un magnaccia e, leggenda vuole, davvero esistito, un afro-americano (conosciuto anche con il nome di Wilson Jones, una figura e personaggio fotografato da Alan Lomax e portato ad incidere nel 1934). “Stavin’ Chain” è anche il soprannome di molti bluesmen e secondo la Stavin’ Chain di Lil Johnson, lui era un capo macchinista di un treno (un uomo grande e grosso che poteva fare l’amore per tutta la notte). Lil Johnson proponeva con delizia musica hokum e canzoni vaudeville. 

He May Be Your Man (But He Comes To See Me Sometimes) di Lucille Hegamin è in puro stile barrelhouse, uno stile pianistico jazz praticato agli inizi del sec. XX nelle bettole di New Orleans, da cui deriva il nome. Ha una matrice prevalentemente blues, a carattere fortemente percussivo con accenni allo stomp e allo “stride piano” che eredita la struttura pianistica del ragtime.

Incisa da Lucille Hegamin And Her Blue Flame Syncopators (una voce soprano con orchestra) per la Black Swan Records a 78 giri nel 1922, composta da John Henry Bradford (cantante, compositore e pianista jazz dell’Alabama) e Lemuel Fowler (pianista jazz) ed incisa anche da The Original Memphis Five (Trixie Smith con Charlie Shavers e Sidney Bechet) nel 1938. Lucille Hegamin è la seconda cantante blues afro-americana a incidere già negli anni ’20.

Sweet Lotus Blossom (Lotus Sweet Marijuana) di Julia Lee (1902-1958) cantante e pianista nata nel Missouri, qui in una canzone sulla droga da lei incisa nel 1945, interpretata da Veronica in maniera esemplare e ammiccante.

Ma’ Rainey’s Black Bottom di Gertrude “Ma” Rainey, nome d’arte di Gertrude Malissa Nix  Pridgett (1886-1939), è un autentico omaggio alla “Madre del Blues”, colei che ispirò la stessa Bessie Smith. Ma Rainey ha scritto e inciso questo brano nel 1927 e si riferisce alla “Black Bottom Dance”, un ballo di origini afro-americane. È stata la prima artista a rompere la barriera degli spettacoli di cabaret e vaudeville e a portare il sound nero al pubblico bianco.

What’s Your Price di Lena Wilson, blues singer e voce soprano di Charlotte, Carolina del Nord (1898-1939) che incise What Your Price? come singolo a 78 giri su Columbia nel 1931, è un brano per solo piano e voce, ragtime puro dal titolo piuttosto auto-esplicativo sulla prostituzione e di una lavoratrice/imprenditrice.

B.D. Woman’s Blues di Lucille Bogan è una delle prime canzoni blues lesbiche e dove B.D. sta per “bull dyke o “bull dagger”, che sono entrambi termini slang per riferirsi alle donne lesbiche dai tratti somatici di colore e mascolini.

Dope Head Blues è di una grande artista texana di Houston, Victoria Spivey (1906-1976), una delle grandi “Signore del blues” degli anni ’20.  Un testo con riferimenti a riti e pratiche esoteriche in cui affiorano atmosfere allucinate dall’uso di droghe e da lei inciso nel 1927.

My Man Rocks Me (With One Steady Roll) è un blues strascicato di Trixie Smith, una cantante blues, artista di cabaret, attrice e songwriter. Ancora una volta una storia di beatitudine erotica e alle prodezze erotiche del suo uomo e di cui lei non ha paura di esternare, ma neanche per farne un vanto. Un’incisione che risale al 1922.

Sold It To The Devil è di Merline Johnson nota anche come “Yas Yas Girl”, nativa del Mississippi  e dove in questo motivo inciso nel 1937, la figura del diavolo  non è cattiva, ma è invece una precisa e venerata entità spirituale nel sistema religioso dell' hoodoo. Merline Johnson era un contralto potente dallo stile jazz-blues avvincente e comunicativo.     

Hot Nuts (Get’em from The Peanut Man) è di Georgia White, una pianista di grande talento e figura importante nel periodo di transizione tra il blues classico e il R&B sulla scena della Chicago nera dove emigrò intorno al 1920 e che incise questo brano nel 1936 e con un repertorio al suo attivo colmo di pungente ironia. Qui i maschi sono chiamati Hot Nuts (uomini pazzi). Il washboard di Veronica Sbergia e i fiati e la cornetta di Mauro Porro rendono il brano tra i più riusciti. 

It Ain’t Gonna Give Noboby None Of My Jelly Roll, scritta da Clarence e Spencer Williams, è stata incisa la prima volta nel 1919 ed è celebre per la versione di Louis Armstrong. La versione di Sweet Emma Barrett risale invece al 1961.  Il Jelly Roll è un biscotto arrotolato, una girella o un particolare tipo di dolce, preparato avvolgendo una farcitura all'interno di un foglio di pan di Spagna, ma è anche un eufemismo culinario per riferirsi ai genitali femminili e una metafora assai usata nei testi blues.             
In chiusura If It Don’t Fit (Don’t Force It) di Aletha Mae Dickerson, che ha inciso questa eloquente e piccante ballata il 3 marzo del 1937 a Chicago con lo pseudonimo di Barrel House Annie, ma pubblicata soltanto come ristampa dalla Columbia nel 1991. Un brano rimasto misterioso, in quanto  Aletha Dickerson era  la pianista in questa incisione, ma non la cantante e l’identità di Barrel House Annie non è del tutto confermata. Un motivo salace, lascivo, dove ci si riferisce al sesso anale.

Veronica Sbergia attinge dall’enorme songbook della musica afroamericana (black, nera) meritandosi di confrontarsi alla pari con le sue colleghe americane con cui non sfigurerebbe assolutamente. Bawdy Black Pearls è un autentico e riuscito contributo alle origini e alla storia del blues. In quest’album la nostra “first lady"  del blues si è calata perfettamente nei vari personaggi, nelle blueswomen dell’epoca e canta in maniera acclarata, euforica, raggiante, risoluta, convincente e scoppiettante, rendendo assai bene le atmosfere degli “Anni Ruggenti” e di quei gloriosi primi anni del XX secolo.

Un disco “vintage” assai prezioso.

Track List

  • Stavin` Chain
  • He May Be Your Man (But He Comes To See Me Sometimes)
  • Sweet Lotus Blossom
  • Ma Rainey`s Black Bottom
  • What`s Your Price
  • B.D. Woman`s Blues
  • Dope Head Blues
  • My Man Rocks Me (With One Steady Roll)
  • Sold It To The Devil
  • Hot Nuts (Get`em From The Peanut Man)
  • I Ain`t Gonna Give Nobody None Of My Jelly Roll
  • If It Don`t Fit (Don`t Force It)