
The Long Ryders Final Wild Songs
2016 - Cherry Red Records
#The Long Ryders#Americana#Roots #Stephen McCarthy #Tom Stevens #Greg Sowder #Barry Shank
This isn’t about Lennon and Mc Cartney
This isn’t about Sacco and Vanzetti
This isn’t about Leopold and Loeb
This is about two guys called…..
Si era intorno alla metà degli anni Ottanta.
Internet, youtube e spotify non esistevano neppure nella mente dei più appassionati delle nuove tecnologie che stavano entrando nelle nostre case, in genere sotto forma di Commodore 64 (poi magari in quella di Bill Gates o di Steve Jobs sì, ma chi di noi sapeva chi fossero costoro, allora?).
Per gli appassionati di musica, le fonti erano quindi necessariamente le varie riviste, i negozi di dischi peraltro frequentati con estrema parsimonia (sapevo già tutto di dischi che avrei potuto permettermi di comprare dieci anni più tardi), qualche trasmissione radiofonica (per gli altomilanesi quali il sottoscritto, più che altro la classica Radio Popolare Milano e la sua emanazione locale Radio Olona Popolare) e la nascente moda dei video musicali, trasmessi da Mr Fantasy Carlo Massarini in seconda serata su Rai Uno (ebbene sì, altro che Bruno Vespa…), dalla neonata Video Music e da DeeJay Television.
Quest’ultima in particolare andava in onda in orario post-prandiale - ideale per rimandare di mezz’ora l’attività pomeridiana del bravo studente, ammesso e non concesso che prima di sera ci si decidesse praticarla - su Italia Uno con una serie di conduttori che al solo nominare mi vengono i brividi – tra gli altri Claudio Cecchetto, Gerry Scotti, Fiorello, Jovanotti (scusate, l’ho dovuto dire…).
Un tripudio di idoli pop del momento dalle acconciature improbabili (andate a cercarvi le foto dell’epoca di tale Limahl e capirete cosa intendo dire) con canzonette infarcite di sintetizzatori e di batterie elettroniche, allora onnipresenti, mediamente inascoltabili e video costruiti in maniera pressoché seriale: belle fanciulle più o meno discinte (non che dispiacessero, peraltro), ambientazioni esotiche e luoghi comuni assortiti.
Un giorno però apparve un video che, in quel contesto, appariva come un corpo assolutamente estraneo: una diligenza trainata da cavalli lanciati al galoppo attraverso la Death Valley con gli indiani a inseguirla (credo, ma ne non sono certo, presa di peso da Ombre Rosse, nientemeno), un cantante esagitato con un paio di basette che si pensava potessero esistere solo nei film di Sam Peckinpah o di Sergio Leone, una canzone che inneggiava a due veri eroi della frontiera quali Meriwether Lewis e William Clark (che probabilmente all’epoca non sapevo chi fossero, ad essere sinceri).
Pura mitologia americana, quindi.
E non solo, ma anche - e soprattutto – chitarre, tante chitarre al posto di quegli insopportabili synth che all’epoca ammorbavano ogni cosa (non ultimo lo Springsteen di Dancin’ in the Dark, per inciso).
Era - immagino si sia già capito - il video di Lookin’ for Lewis and Clark, brano che apriva il secondo album dei californiani Long Ryders e ancora mi chiedo per quale strano caso fosse arrivato lì, tra Sandy Marton e i Duran Duran.
Una band che si inseriva nella scena del cosiddetto Paisley Underground: una manciata di band comprendente i Dream Syndicate di Steve Wynn, i Green on Red di Dan Stuart, i Rain Parade di Matt Piucci (e, in subordine, pure le Bangles dell’indimenticata Susanna Hoffs) che rappresentarono per me e i miei coetanei appassionati di rock una delle non troppe ancore di salvezza nell’imperante panorama del pop sintetico di quegli anni.
Tratto peculiare dei Long Ryders una citazione esplicita dei propri modelli di riferimento (era chiaro già all’epoca che la “y” presente nella ragione sociale era gemella di quella dei Byrds) con evidenti riferimenti - anche a livello estetico o, per dirla con la terminologia allora in voga , nel look - alla tradizione del country rock degli anni Sessanta: gli stessi Byrds appunto, ma anche i Buffalo Springfield di Neil Young e Stephen Stills e i Flying Burrito Brothers di Gram Parsons e Chris Hillman
Leader carismatico del gruppo – il tizio con le basette di cui sopra – era Sid Griffin, nativo di Louisville, Kentucky, con alle spalle una precedente esperienza negli Unclaimed e destinato a un pirotecnico futuro diviso tra la produzione musicale – con i Coal Porters, da solista o attraverso molteplici collaborazioni – e un’intensa attività collaterale come autore di apprezzati libri di argomento musicali dedicati alla figura di Gram Parsons, al bluegrass e a Bob Dylan, su cui ha pubblicato – almeno a oggi – due volumi, purtroppo non tradotti in italiano, dedicati rispettivamente ai Basement Tapes registrati con The Band nelle cantine di Woodstock e alla Rolling Thunder Revue, l’incredibile tour tenutosi a cavallo tra il 1975 e il 1976.
Un’esperienza, quella dei Long Ryders, di breve durata scandita dalla pubblicazione di tre album tra il 1984 e il 1987, preceduti dall’EP 10-5-60 edito nel 1983, al netto delle diverse reunion celebrate da allora in poi, non ultima quella in corso d’opera per una serie di concerti a cavallo tra il mese di aprile e di maggio che toccherà anche l’Europa ma – ahimè – non l’Italia, in concomitanza con l’uscita di questo Final Wild Songs.
Si tratta di un agile (nelle dimensioni) box set contenente quattro CD che ripropongono integralmente la loro discografica originaria (o quasi: dalla setlist del primo album – Native Sons, peraltro già oggetto di una ristampa ampliata pochi anni orsono – è scomparsa per motivi a me ignoti Still Get By) distribuita nei prime tre CD con una manciata di bonus tracks, rappresentate per lo più da versioni alternative dei brani già editi o da registrazioni live, tra le quali una Looking for Lewis and Clark registrata nel corso di una puntata di Whistle Test, storica trasmissione della BBC.
Interamente live e inedito, invece, il quarto CD registrato in occasione di uno show in Olanda nell’aprile 1985, allora trasmesso radiofonicamente dall’Armed Forces Network (ovvero l’emittente a uso e consumo delle truppe americane diversamente dislocate sul pianeta).
Decisamente interessante il booklet, con particolare riguardo alla presentazione di tutte le canzoni incluse nel box redatte in maggior parte dallo stesso Griffin e in minor misura dagli altri componenti della band ovvero il chitarrista Stephen McCarthy, il bassista Tom Stevens e il batterista Greg Sowder, nonché di Barry Shank bassista nella line up originaria del gruppo e autore di un altro dei classici della band, Ivory Tower, inclusa nel loro album di debutto e nobilitata dalla presenza ai cori di Gene Clark, ex componente dei Byrds quasi a voler sottolineare il debito di riconoscenza verso costoro.
Lettura decisamente utile per comprendere influenze e suggestioni - non solo musicali - alla base della musica dei Long Ryders.
Musica che, ricatalogata secondo le coordinate oggi in uso, verrebbe senza dubbio inclusa nella casella “Americana”: un rock di impostazione classica paradossalmente inedito per i ventenni degli anni Ottanta arrivati in ritardo rispetto ai Padri fondatori, con spruzzate di sonorità country, citazioni dei maestri (Masters of War di Dylan, Farther Along di Gram Parsons, You Can’t Judge A Book), cover di diversa provenienza (I Want You Bad del NRBQ, Sweet Mental Revenge di Mel Tills e lo standard Six Days on the Road qui presenti e mille altre dal vivo) e una buona dose di apprezzabili brani originali, con un lavoro di scrittura a cui contribuivano in ordine sparso un po’ tutti i componenti della band.
E le chitarre, soprattutto.