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• Rock

The Frames Burn the maps

2005 - Anti

10/05/2005 di Maurizio Pratelli

#The Frames#Rock

Per provare a capire la storia dei Frames, bisognerebbe almeno provare a capire la logica delle case discografiche. Lo so è un impresa difficile, quasi impossibile. D’altronde come riuscire a spiegare che in patria i Frames sono popolari quanto gli U2? Come spiegare che arrivano in Europa solo ora, con questo disco, dopo aver già stampato cinque album in studio, il primo reperibile è “Fitzcarraldo” del ’95 e un esplosivo live nel 2003? Misteri della musica. Pensate che il disco d’esordio “Another Love Song”, che non compare nella discografia ufficiale riportata nel sito della band perché fuori catalogo, è addirittura del 1992.
Allora proviamo a ricostruire brevemente un’altra storia irlandese, una delle tante che potrebbero essere narrate con straordinaria efficacia solo dallo scrittore dublinese Roddy Doyle.
Non lo cito a caso: ricordate “The Commitments”, lo splendido film tratto dal primo episodio della trilogia dedicata a Barrytown, scritta proprio da Roddy Doyle?
Bene, in quella pellicola del ’91 Glen Hansard, il cantante dei Frames, interpretava Outspan Foster, il chitarrista dai capelli inevitabilmente rossi e ricci, della band più nera d’irlanda, quella che voleva cantare il soul e finì la sua breve vita prima che Wilson Pickett riuscisse ad assistere al loro concerto.
I Frames o meglio The Frames – perché, proprio come ricordava Jimmy Rabbitte, il personaggio che nel film diretto da Alan Parker interpretava il manager della band, tutti i nomi dei grandi gruppi sono preceduti dall’articolo – hanno avuto più fortuna.
Almeno in Irlanda dove da tempo sono considerati alla stregua degli U2, dove Damien Rice che li conosce da tempo li considera, insieme a Radiohead, la miglior live band del pianeta. Con queste premesse, “Burn The Maps”, primo disco per casa Anti, già lo scorso anno si piazza senza fatica al primo posto delle classifiche irlandesi e, per la prima volta, attraverso una distribuzione più importante, prova ad uscire dai verdi confini.
Così, tra lo stupore di chi come noi si è chiesto perché solo ora, The Frames sbarcano finalmente anche in Italia. Ed inevitabili come Sanremo, per lanciarli si utilizzano tutti i paragoni possibili, da quelli più in voga a quelli di culto: Coldplay e Radiohead, Will Oldham e Jason Molina, per finire tutti nelle braccia del solito Nick Drake.
Tutto vero, tutto falso. The Frames, come detto, sono sulle scene dal ’92, hanno debuttato prima dei Radiohead, per non parlare dei Coldplay, e proprio quando la band di Thom Yorke, dava alle stampe il primo capolavoro, “The Bends”, quella di Glen Hansard, nello stesso anno, il 1995, rispondeva con “Fitzcarraldo”, da più parti inserito nella top five dei dischi irlandesi di sempre, al cui vertice non poteva che esserci “Astral Week” di Van Morrison.
Diciamo che quando le sane radici del folk rock e il gusto saporito del buon pop vengono immersi nella pentola musicale irlandese, capace di aggiungere le migliori spezie di quella terra, sofferenza e gioia, energia e rabbia, anima e cuore, possiamo aspettarci un gran piatto. O meglio un gran disco come quello dei Frames.
Sofferto fin dall’inizio con “Happy” che si arrampica sul piano, prima di aprirsi, di liberarsi in un canto quasi disperato, che trova il giusto seguito nella nervosa “Finally”, una lenta discesa all’inferno prima di risalire con la voce rabbiosa di Hansard.
“Dream Awake” e soprattutto “A Caution To The Birds” il cui inizio suadente, ricco di atmosfera è incapace di contenersi, si libra in cielo come un aquilone, sono due brani che mostrano bene le due anime dei Frames, il cui il disco è continuamente marchiato dalla caratteristica di far esplodere le proprie canzoni, rendendole sicuramente devastanti nelle versioni live. Il suono aspro di “Fake” prosegue irrobustendo il disco, aggiungendo sostanza, rendendo meno duttile la materia Frames, capace di cambiare mille volte prima di mostrare ancora la sua faccia sporca.
Se “Ship Caught in The Way” porta sulle strade low-fi dei Mojave 3, “Keepsake” ne continua in parte il percorso impreziosita dagli archi che spesso fanno capolino, tra le pieghe di molte canzoni, con un cantato onirico appoggiato ad una chitarra magicamente ossessiva. Tra le cose più interessanti di un album che non stanca, credibile fino in fondo, c’è proprio la voce di Glen Hansard, emozionante in ogni sua forma espressiva, capace di modellarsi ai suoni più acustici della seconda parte dell’album, come di arrampicarsi sulle tonalità più alte che le canzoni impongono alla prima.
Insomma, se gli ultimi Radiohead non vi hanno convinto, se vi sembra troppo aspettare ancora qualche settimana per X&Y dei Coldplay, non aspettate a fare vostro questo disco. Potrebbe finire come con David Gray: quelli l’hanno conosciuto con “White Ladder” sono corsi a comprare tutti i suoi primi dischi.

Track List

  • Happy|
  • Finally|
  • Dream Awake|
  • A Caution to the Birds|
  • Trying|
  • Fake|
  • Sideways Down|
  • Underglass|
  • Ship Caught in the Bay|
  • Keepsake|
  • Suffer in Silence|
  • Locusts

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