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Counting Crows August and everything after deluxe edition
1993/2007 - Geffen
In piena epoca grunge la band californiana di Adam Duritz fece capire a tutti che il buon rock americano, quello che sapeva attingere alle radici, era ancora vivo e capace persino di conquistare le classifiche sull’onda di un pezzo “assassino” come “Mr Jones”. Certamente quel brano diede un enorme contributo all’improvvisa popolarità dei Crows, ma era l’album tutto a funzionare in ogni suo tassello, dalla prima all’ultima canzone in cui Duritz “uccideva”, lui si, con la sua voce, mentre l’immenso T-Bone Burnett cuciva la sua ennesima magistrale produzione.
“Round Here” mise subito in mostra quella perfetta alchimia tra suono e voce, quell’appoggiarsi alle note che ancora oggi rimane la caratteristica principale della loro musica. Nel tempo Adam enfatizzerà l’uso delle sue corde vocali, ma resta indubbio che al suo modo di cantare restano legate buona parte delle fortune di questa band.
Se qui prendiamo, ad esempio, “Perfect Blue Building”, ci troviamo immersi nella tipica dolenza delle loro ballate, avvolti in un mantello musicale che cambia i tessuti ma non il caldo effetto che sa trasmettere. Una coperta mai corta, che si srotola come una morbida pezza fino alla fine delle sue strade, delle sue notti, dei suoi fantasmi. Nemmeno la pioggia di Baltimora riesce a bagnare il cuore di chi sa ascoltare canzoni come queste. E chi non sì è fermato a “Mr Jones” od “Omaha”, ben lo sa.
Fa piacere poi ricordare che ai cori di questo grande disco parteciparono anche metà Jayhawks (Mark Olson e Gary Louris), che solo un anno prima avevano regalato “Hollywood Town Hall”, il loro primo capolavoro. Un altro piccolo ma significativo tassello per capire da quali radici, in fondo, arrivava la musica dei Counting Crows.
Che tre anni più tardi, sopravvissuti all’imprevisto successo, pubblicarono un disco forse ancora più importante. Ma le densissime fughe da ogni equivoco commerciale fecero scappare una buona parte del pubblico e, allora, anche della critica. Bastarono i due tiratissmi pezzi iniziali per perdere almeno metà del loro pubblico. Quello più adatto ai Coldplay che nemmeno arrivò ad ascoltare “Goodnight Elisabeth”, pezzo numero quattro, figuriamoci “A Long December”, numero tredici.