Quando nel 2020, causa pandemia, vennero annullati i concerti di John Zorn organizzati da Angelica fu un duro colpo. Erano in programma, tra Bologna e Modena, The Hermetic Organ, The Classic Guide To Strategy, Encomia (con Stephen Gosling al piano) e Jumalattaret con il pianista e la voce di Barbara Hannigan.  

Mai avrei pensato di veder recuperate, sempre per Angelica, quelle due date; mai avrei pensato di veder moltiplicati i set sino ad arrivare ai nove progetti presentati tra Modena, Reggio Emilia e Bologna nell’arco di meno di 30 ore! 39 anni di musica da rincorrere e gustare!

Si inizia il 30 Ottobre alle 20.30 al Teatro Storti di Modena e si inizia realmente col botto: Barbara Hannigan, accompagnata dal preciso pianismo di Stephen Gosling, si misura con Jumalattaret un brano di Zorn del 2012 tratto dal poema epico finlandese Kalevala e in cui le complessità esecutive hanno ormai il sapore della leggenda.  Zorn scrive una partitura che fa riferimento a tutta la vocalità del secondo ‘900: un’opera di un virtuosismo quasi parossistico e in cui le vocalità di Meredith Monk, Joan La Barbara, Cathy Berberian e infinite altre vengono richiamate, omaggiate e in qualche modo spinte sino al loro limite estremo. Che una sola performer, per quanto brava, potesse arrivare a cantare con questa perfezione un’opera come Jumalattaret ha qualcosa di miracoloso e non vedo l’ora che arrivi una registrazione ufficiale di questi intensi 22 minuti in cui, se forse nulla di “nuovo” viene scritto, abbiamo una scrittura ed una esecuzione che da sole valgono intere discografie e cicli di concerti.

Difficile veramente passare oltre. Il cambio palco è velocissimo e, come tutti i cambi palco di questi giorni, verrà guidato con precisione sempre dallo stesso Zorn. Heaven And Earth Magick vede all’opera Stephen Gosling al piamo; Sae Hashimoto al vibrafono; Jorge Roeder al contrabbasso e Ches Smith alla Batteria. I brani sono strutturati su due binari paralleli: mentre piano e vibrafono eseguono partiture rigorose come fossero brani classici, la sezione ritmica suona libera (anche se con stilemi ormai codificati). Come in Jumalattaret, siamo di fronte ad un’opera complessa in cui emerge il talento della percussionista di origine giapponese Sae Hashimoto che pur nella difficoltà della partitura sembra riuscire con la sua personalità a scardinare lo stereotipo zorniano nella scrittura per vibrafono che compare in tutti i suoi brani per vibrafono a partire dal 2005. Tra frenetici cambi di tempo, dinamiche esasperate, aperture liriche e momenti di puro nervosismo sonoro spesso siamo (ancora e felicemente) dalle parti della musica di Carl Stalling; comunque dalle parti di alcune delle cose migliori che il ‘900 abbia potuto ispirare.

Tocca ora a Zorn in solo: alla sua Classic Guide To Strategy; un progetto nato ed evoluto sin dalla prima metà degli anni ’70; un progetto che ha come focus l’esplorazione dello strumento “Sax Contralto”: delle sue infinite possibilità timbriche e sonore. Lavorando su continue contrapposizioni, ma strutturandole attraverso esplorazioni del corpo dello strumento e delle sue possibilità, Zorn ci travolge con una investigazione unica. Dopo aver schiacciato, come sempre, il tasto REC del registratore del cellulare procede verso una composizione istantanea sul suono in cui, come lontanissimo riferimento, potremmo avere i lavori per voce di Demetrio Stratos. Senza trucchi o sotterfugi pure melodie vengono interrotte da borbottii o da sequenze intere di diplofonie e triplofonie su tempi velocissimi di cui purtroppo pochi sembrano accorgersi ma che comunque conquistano tutto il teatro. Tra Cartoon Music, Free, Musica Concreta e ricerca strumentale un set creativo, potente e prezioso. Consapevole nell’esplorare i limiti del suo sax Zorn suggella, anche con un successo personale, la serata.

L’ultimo set per oggi è ad appanaggio dei Simulacrum; a detta di John Zorn “l’Organ Trio più estremo di sempre”.  John Medeski Organo Hammond, Matt Hollemberg Chitarra Elettrica, Kenny Grohowski Batteria ci investono con trentacinque minuti di musica tratta dai loro circa dieci album. Il progetto non è mai stato tra i miei preferiti. Su disco il suono sembra sempre piuttosto “finto”, forzato e senza mai possedere quel senso del “groove” capace di poter far fare a questo sfoggio di tecnica e “cattiveria” un passo oltre lo sterile esercizio. Fortunatamente dal vivo il trio ribalta questa sensazione e, soprattutto grazie all’organo di Medesky, il loro live sorprende non poco. Ed allora ecco che i passaggi diventano più credibili, coinvolgenti e godibili pur nella loro programmatica aggressività. Ed è così che sotto applausi calorosi e convinti lasciamo il teatro. Domani, per molti degli spettatori, è in programma lo spostamento a Reggio Emilia per la seconda parte di questo trittico.

31 Ottobre Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia ore 18: la coppia Voce/Piano Hanningan/Gosting ci accoglie con Split The Lark una composizione del 2021 scritta appositamente per la cantante. Ispirato a Envelope Poems di Emily Dickinson il progetto “placa” le velleità zorniane verso una scrittura “estrema” per la voce umana e si concentra, in maniera meno forzatamente virtuosistica, verso una idea compositiva altrettanto completa ma più “umana”. I sette piccoli notturni per piano e voce passano dal recitativo ad un cantato spesso fatto di vocalizzi che enfatizzano magia e mistero insistendo su note lunghe o su brevi frasi musicali che si concludono spesso comunque su note lunghe. Sicuramente una composizione più personale anche se molto meno d’impatto rispetto al programma della sera precedente. Impeccabile e piena di fascino performativo l’esibizione di una magnetica Hannigan e perfetto in ogni momento l’accompagnamento al piano di Gosting, a suo agio con una scrittura complessa e che utilizza tutte le parti del pianoforte con straordinaria tecnica.

Per il secondo set della serata, Star Catcher, alla coppia Hanningan/Gosting si aggiungono il contrabbasso di Jorge Roeder e la batteria di Ches Smith. Il procedere del brano utilizza lo stesso modello di Heaven And Earth Magick della sera precedente: da una parte una scrittura rigorosa per piano e voce, mentre basso e batteria non seguono nessuna partitura. È chiaro come anche in questo caso le prove abbiano dato coscienza dei brani e l’improvvisazione risulti comunque strutturata. Ma rimane una grande freschezza e, pur insistendo sui vocalizzi, la scrittura appare alchemica e materica mantenendo una ispirazione magica e notturna. La Hanningan canta parti complesse e moderne nell’uso di suoni gutturali e sibili sempre con grande abilità e immenso senso teatrale catturando lo sguardo e le orecchie di tutti gli spettatori. All’interno dei nove frammenti della composizione (terzo frammento se non sbaglio) mi sembrano essere inserite citazioni tratte da Mount Analogue (2012) la cui copertina è tratta proprio da un dipinto della pittrice alchemica Remedios Varo a cui Star Catcher è interamente ispirato.

Con il terzo concerto della serata emergono, per la prima volta, problemi inaspettati. In programma la bellissima e ambiziosa Suite For Piano che Zorn ha composto nel 2021 per Brian Marsella (Piano) accompagnato da Jorge Roeder al Contrabbasso e Ches Smith alla Batteria. Mentre il trio sta iniziando a suonare Zorn in maniera direttiva e plateale intima inaspettatamente ai musicisti di suonare i brani in forma di concerto Classico, con i “movimenti” che si susseguono senza applausi tra un brano e l’altro, invece che con le dinamiche di un concerto Jazz. Marsella e il suo trio cercano di controbattere ma Zorn è categorico. In pochi si accorgono di quanto sta accadendo. I visi dei musicisti si sono fatti nervosi ma iniziano a suonare con decisione. Tra il preludio e il primo brano tutto bene: nessuno applaude. Già tra il secondo e terzo brano sembra esserci tensione: l’applauso del pubblico viene preso in contropiede mentre sta iniziando frettolosamente il brano successivo. Seguiranno applausi subito frenati e una lotta assurda e nervosa dei musicisti ad attaccare il brano successivo sempre più velocemente per evitare gli applausi. Insomma: brano dopo brano la tensione esecutiva purtroppo si sfalda mentre aumenta l’imbarazzo dei musicisti e del pubblico trasformando così un concerto dalle enormi potenzialità in un sempre più faticoso percorso ad ostacoli. Come successo altre volte in questi giorni sarebbe bastato avvisare il pubblico (composto per grandissima maggioranza da musicisti ed addetti ai lavori) di non applaudire tra un brano e l’altro (come avvenuto, ad esempio, per i tre set della Hanningan). Nonostante questo, i brani rimangono bellissimi anche se la tensione sempre più alta tra pubblico e musicisti non ha giovato ai quaranta minuti di esibizione.

È l’ora del momento più atteso e, un po’, temuto. È l’ora del New Masada Quartet con John Zorn (Sax Alto), Julian Lage (Chitarra), Jorge Roeder (Contrabbasso) e Kenny Wollesen (Batteria). Già la disposizione in semicerchio fa capire che pur cambiando i musicisti l’approccio sarà lo stesso di trent’anni fa: temi al fulmicotone alternati a tempi lentissimi, dinamiche esasperate, ascolto ed interplay al massimo, occhi puntati su Zorn bandleader/conductor che comanda ogni istante dei quaranta minuti del set. Scambi strumentali feroci, free, ricerca melodica, duetti, trii, soli si susseguono vorticosi con Lange che, pur suonando benissimo, sembra, soprattutto inizialmente, quasi intimidito dalle possibili richieste zorniane. Tharsis, apertura del primo album dei New Masada, fa parte del Book of Angel Songbook e viene dritta dritta dal Volume 20 a nome di Pat Metheni. Dove il chitarrista del Missouri lavorava con i cembali a serrare il tema con un afflato folkeggiante/orientaleggiante per poi ritornare su atmosfere eteree, a Reggio Emilia, dopo una lunga e sospesa introduzione, su cui il sax alto spazia e “gigioneggia” al meglio tra melodie e feroci accelerate, l’andamento pulsante della ritmica (uno dei veri elementi caratteristici dei progetti Masada) porta potente al tema. Per tutto il set i soli hanno qualcosa allo stesso tempo di divertito e feroce nel loro svilupparsi e alternarsi. Ed ecco che la Cartoon Music torna di nuovo a fare capolino. Come se Zorn, per la milionesima volta, raccontasse, novello Carl Stalling, una nuova avventura di Bugs Bunny e lo facesse nel miglior modo possibile prendendo come spunto scale ebraiche e un po’ di free. E quando in Hath Arob Lange lavora su una sequenza di accordi veloci collegando genialmente l’ennesimo cambio di tempo sembra veramente di essere in un rutilante cartoon degli studi WB. Certo, manca l’incisività della tromba di Douglas ma il suono puro della chitarra di Lange, come al solito buttata nell’ampli senza effetti, costruisce contrappunti e appoggi di accordi molto interessanti. Wollesen dietro le pelli dimostra come il progetto Masada gli appartenga sin dalle prime note (lui era inizialmente il batterista del Masada Quartet originale poi sostituito da un Joe Baron inarrivabile per tecnica e follia creativa). Quanto alla solidità di Jorge Roeder al contrabbasso non ci sono dubbi: quattro volte sul palco in 30 ore danno l’idea di cosa sia capace di sostenere questo musicista!

Tharsis, Hath Arob, Rahtiel, un brano che non riconosco e Mibi i brani eseguiti dal quartetto tra un pubblico entusiasta e soggiogato, per l’ennesima volta, dalla personalità e dal carisma di Zorn capace di spingere il quartetto sempre verso il suo limite performatico più alto.

Sono da poco passate le 20. Si saluta, si chiacchera e si va a prendere la macchina: il tempo di corrrere a Bologna, mangiare qualcosa e, in questa notte di Halloween, mettersi in coda per l’ultimo e atteso set.

A Bologna la notte di Halloween è vivace e rumorosa; divisa tra la trivialità innocua di tanti e qualche colpo di genio e di ironia. In cuor mio spero che Zorn si faccia influenzare dal clima; che rinunci ai suoi noiosi vezzi citazionistici (mal riusciti) per organo e che si abbandoni piuttosto al kitch granguignolesco e alle fascinazioni infantili e grottesche da Fantasma del Palcoscenico. Fuori dalla Basilica di Santa Maria dei Servi di Bologna c’è la coda nervosa e ordinata che precede qualcosa che sa dell’evento a cui si va magari anche solo per curiosità. Ancora molti musicisti ma molto meno legati al Jazz e alle sue avanguardie. Qui le facce e i racconti sembrano più legati al dark, al noise, alla sperimentazione sonora. L’Hermetic Organ - Office Nr. 29 inizia puntuale a mezzanotte nel brusio di chi sta ancora entrando e cercando posto a sedere. Messiaen, Ligeti, Bach, Ives e i più grandi maestri della composizione organistica (puntualmente citati da Zorn come suoi riferimenti per queste improvvisazioni) passano davanti agli occhi in un secondo e subito dopo scompaiono sostituiti da un vagare, spesso inconcludente, sulle tastiere dell’organo. L’approccio organistico rimane particolarmente coerente nel ricercare più una intimità (quasi spirituale?) con il pubblico senza ricorrere a cluster, droni o enormi blocchi sonori. Ma solo nella la parte centrale, costruita sui toni medi e quasi melliflui, l’improvvisazione coglie in maniera interessante questo vagare liquido in uno spazio sonoro amniotico ed accogliente. Del resto dell’esibizione poco rimane se non il fastidio e la conferma di un progetto velleitario che non è solo inutile ma anche dannoso rispetto alla idea praticata da sempre da John Zorn di libertà e creatività artistica.

Non è ancora l’una quando usciamo dalla Basilica. I commenti sono veloci, spesso intimiditi come se si avesse il dubbio di essersi persi qualcosa; di non aver capito. In pochi minuti la notte bolognese ci inghiotte con le sue maschere, i suoi trucchi e i suoi dolcetto o scherzetto fuori tempo massimo.

Ma cosa rimane di queste 30 ore di rigenerante maratona? Zorn si conferma sempre più un artista postmoderno che lavora ferocemente e con disciplina sugli stereotipi e sulla ricerca di stilemi strumentali e compositivi sino ad un attimo prima della loro inevitabile consunzione ed usura. La possibilità di uscire da una forma sterile oggi sembra data quasi esclusivamente dalla cura per la performance che, nell’artista newyorchese, acquista significato e senso e fa acquistare significato e senso all’opera stessa. Stupisce molto non averlo visto dirigere i gruppi in prima persona come era sempre accaduto sino a pochi anni fa con qualsiasi sua “emanazione artistica”. Ma l’importanza della presenza zorniana in qualità di conductor ancora oggi cambia le carte in tavola come si è visto nell’esibizione pazzesca del New Masada Quartet. Zorn e i suoi mille progetti, pur risentendo su disco di una certa inevitabile stanchezza, si rivelano nei live ancora delle poderose macchine da guerra musicali in grado di fare discutere, annoiare (poco) e ancora entusiasmare (tantissimo). Certo il tempo passa e la creatività e le idee assomigliano sempre di più a qualcosa di più o meno già ascoltato con ben altra dirompente forza (anche se, ancora oggi, il 90 per cento della produzione zorniana, soprattutto live, ha una qualità, varietà e fascino difficilmente confrontabili con altro). Rimane poi la immensa bravura di tutti e una Hannigan con un talento vocale, interpretativo e dello spettacolo assolutamente sorprendente anche nella sintonia posmoderna con l'autore.