Eugenio Finardi

interviste

Eugenio Finardi L'anima blues di Eugenio Finardi

25/11/2020 di Nicola Olivieri

#Eugenio Finardi#Jazz Blues Black#Blues

Occasione ghiotta di fare una chiacchierata con Eugenio Finardi, artista che non conosce confini nel proporre musica. Ecco quindi che Roberto Frattini ha preparato una serie di domande, che poi Nicola Olivieri ha messo nero su bianco.
Pronto? Ciao! Scusami un secondo, stavo sistemando dei ponti mobili Gibson che mi sono arrivati...”. Comincia così la nostra chiacchierata con Eugenio Finardi e questo già rivela molto dell’uomo e dell’artista. Il suo status di icona del cantautorato italiano, gli onori e i tanti anni di carriera non hanno scalfito di un millimetro la sua grande umanità e la sua passione intatta per la musica.

I “ponti” di cui parla sono quelli che gli servono per le chitarre che si costruisce: un’attività a cui si dedica da anni con grande passione. Ci dice che ne ha fatte una trentina, e quando gli chiediamo perché si debbano avere tanti strumenti, ride e risponde: “A volte me lo chiedo anche io! Vorrei essere come i violinisti che hanno un violino solo per tutta la vita. Ma le chitarre, soprattutto quelle elettriche, sono come le auto per chi ne è appassionato: ne vuoi sempre una diversa”. Questa della sua passione per la liuteria è una cosa che non tutti sanno. Così come non tutti sanno che Eugenio Finardi, oltre ad essere il grande e storico cantautore che è, è anche un bluesman. Anzi, ci dice con sicurezza: “Io mi considero soprattutto un bluesman”. Nel 2005, infatti, pubblica un eccellente album dal titolo e dai contenuti più che eloquenti, Anima Blues, a cui farà seguito un tour che porterà Finardi, per oltre un anno, in giro per l’Italia. 

La prima domanda è banale, ma inevitabile: come hai “conosciuto” il blues? Molti della tua generazione, ad esempio, ci sono arrivati ascoltando prima il rock blues e risalendo poi da lì alla fonte. E’ stato così anche per te?


 
Io sono cresciuto in una casa senza televisione, quindi da bambino per me non ci sono state le influenze della musica pop italiana degli anni Sessanta, non ci sono stati Canzonissima, Mina, Celentano e i ventiquattromila baci. A casa mia si ascoltava solo musica classica, perché mia madre era una cantante lirica. Io sono letteralmente nato dentro uno strumento musicale, che era appunto mia madre. Studiavo il piano ed ero destinato a diventare un cantante lirico. Poi un giorno arrivò un disco di Harry Belafonte, e quello fu il primo contatto con qualcosa di diverso che non fosse la classica. Tra l’altro, pur non essendo blues, in Belafonte c’era ovviamente molta “blakness”. Ma la vera folgorazione avvenne a 13 anni, durante uno dei miei soggiorni a casa di mia nonna, nel New Jersey, quando vidi in tv i Rolling Stones. La prima volta che sentii Satisfaction pensavo che il suono della chitarra elettrica distorta fosse quello di un sassofono, perché non ne avevo mai sentita una. Da lì, tornato in Italia, ho cominciato ad appassionarmi al british blues e a comprare dischi, oltre a prendermi la prima chitarra, una Eko rossa che ha avuto una vicenda incredibile: proprio in questi giorni è stata ritrovata in uno studio e dovrò andarmela a riprendere dopo tanti anni. Poetico no? Poi, naturalmente, mi sono incuriosito e sono risalito alle fonti, al blues originale, e sono arrivati Howlin’ Wolf, Muddy Waters... Nel 1970 ho avuto anche la fortuna di assistere, nella palestra della mia università a Boston, ad un concerto di John Lee Hooker stando a cinque metri da lui.  Ma in effetti il blues mi ha scelto. Uno nasce con una musica che gli appartiene come radici culturali, ma poi dentro ha qualcosa che lo porta verso un genere che lo sceglie, e che non dipende da dove è nato. La musica è di tutti, a prescindere dal suo luogo di origine. Conosco un gruppo di ragazzi del Massachusset che fanno canto a tenore e se li senti sembrano nati in Sardegna. 

Negli anni in cui hai cominciato, in Inghilterra innanzitutto, ma anche altrove in Europa, c’erano importanti scene blues. In Italia, apparentemente, no. È proprio così o esisteva una scena blues italiana underground? Se sì, che ricordi ne hai?

Non è vero che non ci fosse. La riscoperta del blues, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, è stato un fenomeno mondiale e se ne suonava tanto anche in Italia, anche se magari più nella forma rock blues o blues bianco. Se ad esempio vai a vedere quel che si suonava ai festival del Parco Lambro, del Re Nudo, si suonava tanto blues. C’erano tanti nomi, lo stesso Camerini era un ottimo chitarrista blues ed aveva una blues band, c’erano le Anime, c’era Fabio Treves. Il blues era la base di tutto il rock di quegli anni. Poi il rock si è evoluto, ed è arrivato il prog che ha inserito nel genere le influenze classiche. Io ho visto esordire Emerson Lake & Palmer, ad esempio, all’Isola di White, dove ero andato con Camerini e Treves. Ma questi sono discorsi da musicologi. Ad esempio, in America gli stessi afroamericani avevano rinnegato il blues perché era la musica delle piantagioni, del passato e perché se ne erano appropriati i bianchi. In quegli anni erano passati ad ascoltare l’r&b, il soul, il funky, con gente come Sly And Family Stone. Ma il blues c’era sempre, come matrice, come pattern su cui costruire cose mischiandolo ad altre influenze. Miles Davis, quando cominciò a suonare jazz in chiave elettrica, disse che lo aveva influenzato proprio Sly Stone, ad esempio.

Quanto blues c’è nelle tua produzione non-blues? Pensi che ti abbia comunque influenzato anche nella scrittura delle tue grandi canzoni?

In realtà pochissimo. Ho sempre distinto nettamente le due cose perché, essendo anglofono, per me è impossibile cantare blues in italiano, non riesco a “sentirlo” con la lingua italiana. Per me l’italiano, in musica, è la lingua della nostra tradizione, della musica barocca, ad esempio. Quindi dal momento che ho deciso di scrivere in italiano l’ho fatto evitando proprio le influenze rock blues da cui venivo. Prendi Musica Ribelle: molti credono che sia stata una roba dettata dall’ispirazione, ma in realtà è un pezzo molto costruito, voluto a livello intellettuale, e doveva essere per me un pezzo italiano che evitava i manierismi rock blues. A cominciare dal fatto che ha un’armonia piana, maggiore.  Vedi, io non sono diventato un cantautore per vocazione. È stata un’esigenza intellettuale derivata anche dal fatto che, all’inizio degli anni Settanta, ho fatto una scelta abbastanza avventata per un americano: mi sono iscritto al PCI. Sono diventato comunista. Erano gli anni della guerra in Vietnam. Mi sono stabilito definitivamente in Italia ed è nata l’esigenza, come musicista, di essere anche utile al Movimento e quindi di cantare in italiano. A quel punto fare musica prettamente italiana, che evitava la notina blue e il manierismo angolfono che molti facevano, era ovvio. Quindi da una parte c’è il blues e dall’altra la mia produzione cantautoriale. D’altra parte, io ho due anime, se prendi la mia selezione iTunes e vedi i miei ascolti più frequenti, al numero uno c’è lo Stabat Mater, al due gli ZZ Top.

Quando fai blues lo fai, ovviamente, soprattutto da cantante, ma suoni anche chitarra ed armonica. Parlando di chitarristi, ad esempio, quali sono i nomi che più hai amato e a cui ti sei ispirato?

Ovviamente i grandi maestri come Albert King, B. B. King... Se parliamo in assoluto di chitarristi, forse il mio preferito è Jeff Beck. Tra l’altro, riprendendo il paragone che facevo fra chitarre elettriche e auto, lui come hobby, invece della liuteria, ha proprio quello di costruire macchine.

Cosa ne pensi di Joe Bonamassa? Oggi è al centro della scena rock blues ma anche oggetto di dispute fra gli appassionati: chi lo ama e chi lo odia.

Ma ti dirò, non mi dispiace del tutto. Chiaramente si rifà a musica bellissima, a tutti i grandi maestri e all’evoluzione della chitarra negli anni d’oro del rock blues, quindi è comunque piacevole. E’ una sorta di nerd super studioso che ha imparato perfettamente le note del blues, ma non so se il blues ce l’ha. E’ come con la pizza: quella vera necessità del forno a legna e degli ingredienti freschi, però in mancanza d’altro, puoi prendere quella surgelata e scegliere una buona marca. Ecco, Bonamassa è un po’ il blues surgelato. Certo, basta poi un solo ascolto...che so?... di Blue Jean Blues degli ZZ Top per spazzarlo via. Ha una sua funzione didattica però, perché bravo com’è tecnicamente lo guardi per vedere dove mette i diti (ride) 

Ogni tanto qualcuno parla di “morte” di un genere o dell’altro. Il rock viene dato per moribondo da anni. Per il blues le cose vanno  meglio, ma comunque non c’è più la platea che c’è stata alla fine degli anni ‘80 e nei ‘90 sulla scorta del successo di gente come Stevie Ray Vaughan. Pensi che verrà mai il momento in cui il blues resterà solo una cosa per appassionati?

Ma il blues ci sarà sempre, perché per me il blues non è neanche un genere, non si può analizzare dal punto di vista musicologico. Il blues è una cosa che hai dentro, non è una cosa che si suona, il blues si ha, you got the blues. Tutti i musicisti pensano di conoscerlo, ma ne conoscono solo le note. Prendi i jazzisti, sono convinti di conoscerlo, spesso lo considerano anche con un po’ di spocchia perché pensano sia semplice, tre accordi, una pentatonica. Poi lo suonano e non sanno suonarlo. Suonano le note del blues, ma non hanno il blues.

Per me il blues è un’emozione dentro. Quando a me è nata una figlia down, nell’82, me l’hanno comunicato per telefono ed ero solo in casa. Puoi immaginare il mio stato d’animo, il pensiero su quale sarebbe stato il suo futuro. Beh, io quella notte mi sono messo a cantare blues. Ho cantato Motherless Child, il blues a cui ricorro nei momenti difficili, mi è venuto dalla pancia. È  una cosa che ho dentro, così come il gospel. Ecco, ad esempio recentemente ho comprato una compilation di Mahalia Jackson e mi sono reso conto di conoscere quasi tutti i brani, anche se non so quando li ho imparati. 

Tornando al blues in Italia, c’è una fetta di puristi che sostiene che non puoi mai essere veramente credibile, soprattutto quando lo canti, se non sei afroamericano o almeno anglofono. Credi che si debba per forza trovare una “via italiana” al blues, per non risultare contraffatti?

In italia ci sono tantissimi musicisti blues molto bravi, ma effettivamente, il problema, per me che sono anglofono, è la lingua. Finché lo suonano va tutto bene, ma quando li senti cantare in inglese spesso risultano imbarazzanti. E d’altra parte, come ti dicevo, non riesco ad ascoltare blues in italiano, perché per me quella è la lingua della nostra tradizione musicale e non è fatta come accenti per stare sul blues.

Ed il dialetto? Ad esempio a Napoli c’è una scena blues che canta in napoletano, gente come Gennaro Porcelli, Mario Insenga.

Ecco, ad esempio il napoletano è perfetto. Io stesso, forse, se cantassi blues in un’altra lingua lo farei in napoletano. Per altro lo conosco perché da ragazzo avevo dei vicini napoletani che frequentavo e mi hanno insegnato a parlare il dialetto oltre che ad ascoltare i grandi classici della musica napoletana.

Sappiamo che sei favorevole al digitale. Ma il futuro della musica live può essere lo streaming, in questo momento?

No, per carità! Come si fa? Il pubblico è un elemento aggiunto della band, l’interazione è fondamentale. E non importa neanche che sia numeroso o meno, a parte ovviamente per l’aspetto economico. Tra l’altro, suonare per poche persone è molto più difficile che suonare per molte. Quando riempi uno stadio o un palasport e sono tutti lì ad aspettarti e magari sono tuoi fans, basta che fai il tuo numero e li hai già in mano. Ma quando hai pochi a sentirti e magari gli proponi del blues quando si aspettano altro, devi conquistarteli davvero. 

L’ultima domanda è probabilmente banale quanto la prima, ma anch’essa inevitabile: hai qualche progetto blues per il futuro? Hai in animo di suonarne ancora?

Beh, il mio progetto per il futuro riguardo al blues è... di suonarlo! Ora sto spargendo la voce in giro per trovare dei compagni e andare a suonarlo anche in una cantina. Tra l’altro, come credo tutti i musicisti in questo periodo, ho una voglia di suonare incredibile.

Grazie Eugenio per il tempo che ci hai dedicato e per la bella chiacchierata.

Grazie anche a Daniela Vaccari per le belle foto che ci ha regalato, scattate durante l’esibizione di Finardi al 10° Raduno Nazionale BLUES MADE IN ITALY di Cerea