Gennaro Porcelli

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Gennaro Porcelli Piombo a Blues e altre storie.Intervista a Gennaro Porcelli

15/12/2020 di Nicola Olivieri

#Gennaro Porcelli#Jazz Blues Black#Blues

Non è la prima volta che intervisto Gennaro Porcelli, una delle punte di diamante della scena blues made in Italy. Chitarrista della band che accompagna Edoardo Bennato, alterna alle attività che lo vedono impegnato con il noto cantautore napoletano, una serie di altre iniziative per le quali affonda totalmente le mani nel blues, la musica che lo ha forgiato
Parlare con Gennaro è sempre una gran piacere e poi, tra napoletani, scatta un feeling immediato e la chiacchierata assume presto un tono amichevole e disinvolto. È un parlare a ruota libera e ben presto viene meno la formalità dell’intervista.

Piombo a Blues, pubblicato dalla Cheyenne Records, è il disco di Blues “scostumato” (così lo definiscono gli stessi autori) appena registrato da Gennaro insieme a Gigi de Rienzo al basso, Mario Insenga alla batteria e Daniele Sepe al sax. Ovviamente Piombo a Blues è stato il motivo portante e uno degli argomenti principali di questa intervista.
 
È un momento difficile…

In questo momento possiamo parlare solo di sopravvivenza, se va bene. Sicuramente la categoria di chi lavora con l’arte e lo spettacolo è stata quella che ha subìto di più, quindi oltre a sperare che le cose migliorino, si può dare una mano ai musicisti comprando, per esempio, i loro dischi… per non dimenticarli. Il Covid ha fatto saltare concerti, tour, spettacoli. Nel mio caso per esempio è saltato il tour teatrale con Edoardo Bennato, il Tour di Gennaro Porcelli con la Rudy Rotta Band e poi le date che avremmo organizzato per promuovere il nuovo disco Piombo a Blues. Poteva essere un anno magico ed invece è stato un anno infernale. Ho capito che dovrei utilizzare meglio i social, per mantenere vivo il ricordo, ma non li amo molto quindi mi limito allo stretto necessario, perché sono anche molto pigro. C’è gente che compra i like per poter dire di avere un grosso seguito. Questa cosa mi fa rabbrividire.



Parliamo dei tuoi progetti in essere, indipendentemente dal blocco delle attività live.


Intanto diciamo che ho avuto il grande onore di suonare con la Rudy Rotta Band, dopo la scomparsa di Rudy. Con la RR Band suono i miei brani e anche alcuni di quelli di Rudy. È un modo magnifico di ricordarlo, non dimentichiamo che Rudy Rotta è stato tra i pochissimi italiani ad avere credibilità a livello internazionale. In effetti suonare insieme alla RR Band era già una realtà ma abbiamo ufficializzato il progetto con il concerto di Verona del 2019 in una bellissima serata dedicata a Rudy, terminata in modo fantastico perché, nel finale, alla band si è unito anche Keb’ Mo’ che in quella occasione aveva un set tutto suo. È stato bello perché ci siamo incontrati nei camerini e abbiamo parlato un po’, scoprendo anche di avere degli amici in comune al di là dell’oceano. Ad un certo punto ha detto, “non smontate gli strumenti perché mi farebbe piacere suonare con voi” e così è andata. Una serata bellissima. Con RR Band abbiamo fatto un paio di minitour anche all’estero e abbiamo suonato a Spazio Musica che ora hanno chiuso. Lo dico per ricordare che sono tanti i club che hanno già chiuso o stanno chiudendo, molti definitivamente. Ovviamente suono sempre con la mia band per cui considero questi due progetti paralleli, Gennaro Porcelli & RR Band e Gennaro Porelli Band. Va da sé che suono sempre con Bennato, di cui ricordiamolo è appena uscito il nuovo disco “Non c’è”.

Nonostante il Covid c’è stata una esibizione live questa estate per te. Vero?

Si, sono stato incaricato di fare il direttore artistico di un piccolo festival il Subterranean Homesick Blues Festival, che si è tenuto a settembre a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, svoltosi all’interno dell’Anfiteatro Flavio, una location pazzesca. Ho suonato con la Gennaro Porcelli Band ma sono risuscito a portare anche Bai Kamara e Matthew Lee. In tempi normali, in quella straordinaria cornice, sarebbero venuti ad ascoltarci un migliaio di persone, ma ne abbiamo potuto accettare solo 180.
 



Parliamo di Piombo a Bluse, il nuovo disco pubblicato per la Cheyenne records. 


Il progetto è figlio di un’antica amicizia con Mario Insenga. In realtà non ci siamo frequentati per un lungo periodo. Dopo circa quindici anni ci siamo ritrovati ed è stato un ritrovarsi molto forte e bello, come se quel periodo di lontananza non ci fosse mai stato. Con gli altri ci siamo “sfiorati” negli anni, per così dire, senza però avere delle vere situazioni in cui suonare insieme. L’occasione è stata creata da un mio amico che ha organizzato la reunion tra me e Mario. In quella occasione si sono aggiunti Gigi de Rienzo al basso e Daniele Sepe al sax.
 
il sassofono è uno strumento che si incontra poco nel blues.

E si, perché con questa formazione il blues che suoniamo è… un blues dissacrante, un blues fatto da quattro amici seduti a tavola che si dicono cose, anche senza freni inibitori. Il disco in effetti è pieno di parolacce… ma lo abbiamo fatto apposta, perché quando siamo tra noi siamo così, siamo molto spontanei e parliamo in dialetto con termini spesso presi dalla strada. Nel disco, però, ci sono anche brani in inglese, e in ogni caso sia con i brani in dialetto napoletano (non quello elegante della canzone napoletana classica, per capirci), sia con quelli in inglese, abbiamo toccato anche temi politici piuttosto seri. Questo disco è stato realizzato in modo sereno e anche il mio modo di suonare è più tranquillo, cioè sono meno cattivo del solito, e utilizzo anche stili diversi a seconda del brano, per cui puoi ascoltare il Chicago style piuttosto che il Mississippi style. E poi la chitarra non è l’unico strumento solista, c’è il sassofono che chiede il suo spazio. In altre parole, ci sono gli assoli, ma il progetto ha un suono più globale finalizzato a raccontare storie di vita vissuta, in modo dissacrante come ho già detto, ma questo è proprio l’essenza del blues.

Purtroppo, siamo riusciti a fare solo due concerti nei quali abbiamo proposto i brani del disco, poi ci siamo dovuti fermare. Speriamo di poter tornare presto a suonare live. Il disco, a causa del Covid, ha subìto un gran ritardo, ma noi abbiamo deciso di farlo uscire comunque, immaginando che, chi ci segue, abbia il tempo di ascoltarlo e quando sarà possibile riprendere i concerti verrà a sentirci con le idee più chiare. Al momento non è stato ancora caricato sulle piattaforme digitali, ma è possibile comprare il cd direttamente nello shop on line della Cheyenne Records.

Torniamo alle origini. A che età hai iniziato a suonare la chitarra?

Da giovanissimo. A casa dei miei nonni c’era una chitarra, nella mia famiglia non suona nessuno, ma quella chitarra era li ed io sono sempre stato attratto da lei, anche perché in casa è vero che nessuno era musicista, ma si ascoltava tanta musica.

Quindi quello che hai appreso nel tempo è solo dovuto alla tua curiosità, alla tua voglia di imparare.

Io sono totalmente autodidatta.

Magari suonassero tutti come te gli autodidatti.

Ho sempre studiato la musica da solo, qualche amico mi ha dato delle dritte preziose, da ragazzo ho anche preso qualche lezione di finger style per un anno circa, ma il grosso l’ho fatto tutto da solo. E poi dall’età di 15 anni si può dire che ho iniziato una carriera da professionista.

E quale è stata la tua prima esperienza a 15 anni da professionista?

A quell’età formai il mio primo trio, ma parallelamente già frequentavo i Blue Stuff all’interno dei quali facevo quelle che si chiamerebbero delle “sostituzioni”. Prima della serata caricavo e scaricavo gli strumenti e poi durante il concerto capitava spesso che fossi coinvolto nell’esibizione. Inizialmente con un brano, poi due, poi tre e così via.

Dunque, fu in quel periodo che hai avuto il tuo approccio con Edoardo Bennato, quando faceva le sue incursioni nel blues?

Non esattamente. Come ti ho detto avevo già una mia band, un trio, parallelamente suonavo anche con altri gruppi, ma devi sapere che già all’età di dodici, tredici anni studiavo ed eseguivo i pezzi di Bennato, sai in casa si ascoltavano le sue canzoni e per me fu naturale imparare a suonarle, ma soprattutto ho sentito, per la prima volta la parola “blues” pronunciata proprio da Edoardo.

E come è successo che sei entrato a far parte della sua band?

È avvenuto dopo anni di militanza nei Blue Stuff di Mario Insenga e poiché Edoardo ogni tanto andava ad ascoltarli, è successo che dopo la prima volta che mi ha sentito suonare con loro, il giorno dopo, mi ha chiesto di andare a registrare un brano con lui. Ricordo che scesi dal palco, Edoardo era lì e mi venne incontro dicendomi “domani pomeriggio, verso le 16.30 ci sei?”, ovviamente accettai subito, all’epoca avevo 21 anni e da molto tempo già suonavo il repertorio blues di Bennato. Edoardo è una miniera musicale, uno che passa da Rossini all’hard-rock passando per il blues. È uno che ne ha per tutti i gusti.

Bennato rappresenta ancora una parte importante del tuo presente artistico, ma quali musicisti ti hanno influenzato oltre a lui?

Uno su tutti, il primo, è stato Johnny Lee Hooker. Suo fu il primo disco di blues che ho comprato. Lo sentii nominare e in quel periodo in edicola c’erano i suoi dischi e ne presi uno. E così è iniziata la mia vita di musicista, con alti e bassi, ma sempre vissuta facendo tutto il possibile per viverla al meglio, da musicista e non da mestierante. Musicalmente seguo solo i miei progetti e quelli di Edoardo, null’altro.

Nella tua vita di artista, Johnny Winter è stato un personaggio importante e anche il tuo incontro con lui è stato importante…

Per me Johnny Winter è tra i più grandi artisti blues mai esistiti ed io sono un suo grandissimo fan. Piuttosto sottovalutato, ha avuto una vita molto travagliata, dovuta anche al suo albinismo per il quale da ragazzo ha subìto atti di razzismo che non gli hanno facilitato l’esistenza. A farmelo incontrare furono Mark Epstein e Vito Liuzzi, bassista e batterista di Winter con i quali ho suonato. Quando venni a sapere che Johnny sarebbe venuto in Italia, pur sapendo delle sue precarie condizioni di salute, Mark e Vito fecero in modo che lo incontrassi, dicendogli che ero un suo grandissimo fan. L’ho incontrato al Teatro Geox di Padova. Io arrivai lì con la mia Firebird Gibson Limited Edition e… un vassoio di sfogliatelle napoletane, ma lui non poteva mangiare dolci e mi beccai pure un cazziatone dal manager. Lui poteva assaggiare solo un po’ di cioccolata fondente. In ogni caso un pezzettino di sfogliatella la mangiò! Fu gentile, anche se aveva un carattere piuttosto strano, sicuramente dovuto alle sue lunghe dipendenze da alcool e droga. Era ridotto piuttosto male, ma faceva quasi tenerezza e se pensi che quando era in forma era un ciclone, vederlo così… purtroppo è stato gestito male dal suo ex manager del quale mi hanno raccontato brutte storie. Insomma, ho trascorso con lui un intero pomeriggio e dopo il soundcheck abbiamo parlato di blues e di chitarre per alcune ore e gli ho fatto ascoltare il mio primo disco e la mia versione del suo brano Dallas… e dopo disse “un grande lavoro di slide”. Nel camper dove siamo stati a parlare c’era il suo iPod con una selezione di blues degli anni ‘30 e ’40 e man mano che li ascoltavamo lui li commentava, uno per uno. Una miniera di informazioni, ed era una sua abitudine commentare i brani anche con il suo gruppo durante gli spostamenti tra una città e l’altra dell’America.  A volte i suoi stessi musicisti gli chiedevano di smettere ma lui pretendeva che tutti ascoltassero quella musica. Insomma, era così e quando hanno tentato invano di trasformarlo in una rock star con tacchi e trucchi, in quel ruolo non si è mai riconosciuto, perché si sentiva un musicista blues. È stato produttore di tre dischi di Muddy Waters che hanno vinto dei Grammy Awards e sono Hard Again, King Beee e Muddy “Mississippi” Waters Live. 

Comunque mi ha fatto i complimenti e abbiamo parlato della mia chitarra limited edition. Poi ci siamo salutati. Mi dispiace di una sola cosa, due anni dopo quell’incontro avrei dovuto aprire un suo concerto al Lancaster Blues Festival, naturalmente conservo ancora gli articoli che annunciavano la mia esibizione, ma purtroppo una serie di situazioni avverse ritardarono la mia partenza e quel concerto non feci in tempo a farlo.

Nel panorama italiano c’è qualcosa di interessante dal tuo punto di vista?

Senza fare nomi e torto a nessuno, posso dirti che abbiamo musicisti blues italiani che tecnicamente non hanno nulla da invidiare ai colleghi americani. Quello che percepisco è una certa mancanza di originalità, nel senso che sento sempre gli stessi fraseggi con la chitarra e questo mi delude un po’. Naturalmente parlo per le esperienze vissute in prima persona.

Ho capito che questo è un terreno scivoloso, che rischia di scatenare qualche incidente diplomatico. Allora dimmi quali artisti stranieri apprezzi particolarmente.

Ovviamente Winter di cui ti ho già parlato poco fa, anche se di suo eseguo poche cose, ma è stato formativo tanto dal punto di vista tecnico che emozionale, e poi ci sono Elvin Bishop che mi piace moltissimo, ovviamente i King, Peter Green, Rory Gallager, insomma nomi classici. Non ho dubbi a segnalarti Eric Gales, un vero talento contemporaneo, molto virtuoso.

Sei anche un insegnante, giusto?

Mi sono convinto che in giro non ci sono molti corsi analoghi al mio. Questo non lo dico io ma lo dicono gli altri. Tutti i musicisti di blues dovrebbero fare questo percorso, partire da Robert Johnson, che in qualche modo ha codificato la musica moderna, per arrivare a Derek Trucks che è sicuramente nell’olimpo dei grandi chitarristi innovatori. In questo corso non si studia con un pentagramma ma attraverso la comprensione temporale e geografica di ogni stile di blues. Prima la lezione di storia del blues e poi viene la chitarra, perché se parlo del blues della Louisiana o di quello del Texas devo prima inquadrare tutto storicamente e geograficamente e poi spiegarti come e perché si è sviluppato quel determinato stile chitarristico.

La maggior parte dei miei alunni sono chitarristi, diciamo così, già avviati, interessati a saperne di più e questo porta spesso a parlare non solo di blues, ma anche di country, di swing, di rock and roll anni 50 per arrivare anche all’hard rock.

Come sempre è stato un vero piacere parlare con te. Grazie per la tua disponibilità e del tempo che hai dedicato ai nostri lettori.

È stato un piacere anche per me, speriamo di poterci rivedere presto, magari in occasione di un nuovo concerto. Non vedo l’ora di ricominciare a suonare dal vivo.