Black Tail

interviste

Black Tail L'America, la presa di coscienza e le mezze stagioni

03/12/2015 di Sisco Montalto

#Black Tail#Emergenti#Alternative

I Black Tail si ispirano a Pavement, Yo la Tengo e Wilco. Il suono lo-fi, che permea tutto il disco, si mescola ad un pop puro che senza presunzione riesce efficacemente a far risaltare il messaggio che c’è in ogni singola traccia: transizione e cambiamento, disillusione e disincanto, raccontare o meglio cantare le proprie emozioni cercando senza troppa presunzione di renderle universali. Cristiano Pizzuti, mente del progetto, racconta in questa intervista l'evoluzione dei Black Tail.
Black Tail è un progetto che nasce un giorno di ottobre a Boston. Conclusa l’esperienza dei Desert Motel, Cristiano Pizzuti (voce, chitarre, rhodes, organo), temporaneamente negli Stati Uniti, inizia a raccogliere alcune nuove canzoni. La formazione, che inizialmente è un duo con Simone Sciamanna (anche lui ex Desert Motel) alle chitarre, trova la sua forma definitiva in seguito, con l’ingresso di Luca Cardone al basso e Roberto Bonfanti alla batteria: nasce Springtime.

Springtime, a dispetto del titolo primaverile, è un disco che ti butta addosso immediatamente tutta l'atmosfera autunnale di alcuni luoghi, in questo caso Boston con i suoi avvolgenti boschi e la natura affascinate tipica del Massachusetts e in generale degli Stati Uniti. La sensazione che si ha ascoltando il disco d’esordio dei Black Tail è di quelle che creano un insieme di sfumature in chiaro scuro. Springtime ha il suono spontaneo e minimale di un prodotto che vuole presentarsi così come è, per trasmettere chiaramente quello che è il senso di sospensione provata dai Black Tail durante la composizione dei brani.

Il suono lo-fi, che permea tutto il disco, si mescola ad un pop puro che senza presunzione riesce efficacemente a far risaltare il messaggio che c’è in ogni singola traccia: transizione e cambiamento, disillusione e disincanto, raccontare o meglio cantare le proprie emozioni cercando senza troppa presunzione di renderle universali. I BT lo fanno rimanendo sommessi, come se non volessero arricchire di artifici il loro sound e allo stesso tempo far risaltare al massimo la loro idea di musica.
Springtime evidenzia anche una maturità importante nello scrivere brani dal piglio cantautorale. Un elemento ulteriore che da al disco una spinta in più, quasi diventando il vero snodo da cui poi passa tutto il resto, che diventa quasi secondario in alcuni passaggi. Solo in brevi momenti (Springtime, Love Is a Bore) c’è sussurrato il tentativo di risvegliarsi dalla condizione di consapevole sospensione e delicatezza con sprazzi di Shoegaze.
Alla fine si ha la sensazione di aver ascoltato un lavoro che nella sua semplicità comunica tutta la carica emotiva della band.

Cristiano Pizzuti, mente del progetto, racconta in questa intervista l'evoluzione dei Black Tail.

Mescalina: Quanto c'è in Springtime di immaginato e quanto di reale? Mi riferisco ad esempio a quell'idea di America che molti idealizzano e sognano e che ascoltando i brani in tanti momenti  si avverte.

Cristiano Pizzuti: In larga parte il disco nasce in un momento di profondo cambiamento, riflette questa volontà di conciliare la fase di passaggio, cercando di individuare presupposti per la continuità, attraverso quel processo che permette di essere qualcosa e diventare altro. Nel mio caso specifico, quel cambiamento è stato proprio trovare, in senso reale, una dimensione in quell’America che per anni ho vissuto nei dischi. Vivo qui, in provincia, tra Roma e Latina, ma per lavoro sono quotidianamente in contatto e periodicamente mi muovo dall’altra parte dell’oceano, dove ormai posso dire di avere amicizie e ricordi. Certo, ne vivo solo la piccolissima parte di uno spaccato enorme, ma sicuramente abbastanza perché qualcosa finisca nei brani. Alcuni li ho scritti in viaggio, sebbene la maggior parte riguardi situazioni legate alla vita di qui. In ogni caso mi piace l’idea che queste due cose risultino sfumate e contaminate, perché ciò corrisponde a quell’idea di persistenza e coesistenza che ne ho percepito io.

Mescalina: Nella presentazione del disco si citano nomi importanti del panorama musicale soprattutto statunitense come Pavement, Yo la Tengo e Wilco. Il sound di queste band è stato un punto di partenza per voi, per sviluppare la vostra musica o un punto di arrivo, nel senso che avete cercato di raggiungere quel tipo di approccio?

Cristiano Pizzuti: Ascoltare musica ti frega. Nel senso migliore possibile. Davanti al tipo di suono che ti colpisce sei costretto a fare i conti con ciò che ti si muove dentro. La musica indipendente, principalmente americana, con tutti quei nomi citati, ma di sicuro anche inglese e senz’altro belga, ha avuto un forte ruolo. Oppure i Franklin Delano, per dirne uno di casa nostra. In ogni caso, quale che sia l’ispirazione, senti di voler provare a imparare un certo linguaggio, e proprio per questo, inizi da chi quel linguaggio lo parla. Ti muovi verso la sintassi: cerchi di imparare dove e come nascono certi suoni e amalgami, e questo determina inevitabilmente una curiosità verso l’approccio. A questo punto la faccenda diventa complessa, perché se ti limitassi a questo, sapresti fare esercizi di stile, e di certo sappiamo che non basterebbe. Un linguaggio deve passare anche attraverso un lessico e una parte semantica. Per come la percepisco io, ciò riguarda principalmente il tuo apporto personale, che di certo ti deriva dalla tua cultura musicale, dagli ascolti e le suggestioni, ma anche da quello che personalmente hai modo di concludere ed elaborare da quegli ascolti. Sono punti da cui devi poter partire. Devi amare alla follia i dischi che ti piacciono, devi assorbirli, mangiarli, dormirci insieme, non importa cosa. E poi devi iniziare a domandarti cosa vuoi metterci tu, chi sei, qual è il tuo modo, quale la tua sensibilità. Testare di quali materiali disponi, che idea ti sei fatto. Se vuoi riprendere un discorso, cosa puoi aggiungervi. Facendo questo, stabilisci innanzi tutto una serie di criteri, che non devono essere necessariamente limiti invalicabili, ma semplici tratti entro cui vuoi maturare la tua idea di musica. Lasciarti ispirare – partire da qualcosa – è un grosso trigger. Per il resto, sei curioso di procedere sulle tue gambe, cercando di non forzare il tuo modo di comporre o la direzione delle canzoni, domandandoti se stai operando tanto in funzione della scrittura, quanto di ciò che sei e che senti di dire. In una o due occasioni, provando i brani, ci è sembrato di aver portato il suono su terreni poco spontanei per noi, quindi ci siamo fermati e abbiamo ricominciato cercando di liberare un’attitudine a noi più naturale. Più nostra. Quando niente ti sembra snaturato, allora vuol dire che stai dialogando onestamente con quel bisogno originale. Parli e ti lasci parlare. Sta un po’ tutto lì.

Mescalina: Al di là dei gruppi citati sopra io per tutta la durata del disco ho avvertito  la presenza dei Beatles. Nella costruzione del disco c'era l'intenzione di ricordarli in qualche modo?

Cristiano Pizzuti: Non posso dire di averli volontariamente inseriti nelle composizioni, ma sarei disonesto se dicessi che non ci sono finiti. Sono da sempre una grossa ispirazione, essendo uno di quei gruppi che, specialmente agli inizi, ha colpito un po’ tutti noi. Fanno parte della nostra formazione – chi più, chi meno, chi prima, chi dopo – abbiamo tutti imparato a suonare dietro i loro dischi. Adoro il drumming di Ringo Starr, le chitarre di Harrison. Per quanto mi riguarda, forse li ho amati anche maggiormente nelle loro fasi soliste: la curiosità di Lennon e l’attitudine dei primi due di McCartney precedenti agli Wings, quasi fatti in casa. O cose come All Things Must Pass. Assorbi concetti armonici e musicali, poi quando lasci fluire tutto liberamente, te lo ritrovi sempre in qualche modo. E’ una cosa che ritengo piuttosto bella, non penso ci si debba schermire delle proprie influenze. Fanno parte di quello che siamo.

Mescalina: Avete dedicato un brano ad Elliott Smith. Quale aspetto della musica di Elliott Smith vi ha ispirato, non solo in riferimento all'album ma nel  modo di intendere la musica?

Cristiano Pizzuti: Elliott Smith è stato una figura estremamente complessa nella sua fragilità. Da qualche parte ne ho letto una definizione che lo dipingeva come un Orfeo curioso di sondare le oscurità. Questo forse è ciò di più lampante che ne traspare pensando a lui. In particolare, però, quello che mi affascina della sua personalità, è il suo rapporto con la musica e la gestione della sua musica. Risulta un personaggio totalmente disinteressato alla competizione, a disagio con l’apparire, l’arrivismo, il cercare di ammiccare, di escogitare trucchi. Per quante testimonianze ne leggerai, troverai sempre il profilo di una persona completamente assorbita principalmente dal suonare esclusivamente ciò che gli piaceva, appassionata, curiosa di imparare. Ne tracceranno un profilo onesto, dimesso, umile. Un personaggio che in qualsiasi momento impugna la chitarra e suona le canzoni che ama, o che le propone nei suoi spettacoli, anteponendoli magari ai suoi brani. Uno che sta lì e cerca costantemente di migliorarsi, ma per sé, per il bene della musica. O semplicemente perché gli è rimasta addosso quella smania che si ha specialmente da ragazzi, di dire “ascolta, ascolta questo brano, senti che bello in questo punto, senti che bella frase, senti che bel passaggio”. Ha per così dire i tratti della classica persona fuori dal mondo delle corse al podio, dei “ne resterà soltanto uno”, che l’industria, il mercato o la gente stessa, non esiterebbe a definire un loser. L’umiltà è una grande dote, ti predispone ad una dedizione positiva, effettiva, efficace. Mi sembra dunque, che l’umanità sia la lezione principale da trarne, e questo è quanto mi piace di più. Perché il fatto che sia stato anche un eccellente musicista, è sotto la luce del sole.

Mescalina: Come nascono i vostri brani? I testi mi hanno colpito per la loro maturità e l’accuratezza nonostante spesso si usa l’inglese anche per celare una carenza dal punto di vista della scrittura. Quale valore date a quest’aspetto, in generale nella musica ma in particolare nella vostra?

Cristiano Pizzuti: Ti confesso di non essere mai stato bravo a scrivere testi che non riguardassero qualcosa su cui mi è capitato di riflettere o che ho vissuto. Quando scrivo mi relaziono con esperienze dirette o riguardanti persone che conosco, riflessioni sparse, e per la stragrande maggioranza frammenti, suggestioni, forse non proprio storie compiute. Dopotutto sono cose di tutti i giorni, e cerco di analizzarle tentando di non essere superficiale, ma neanche in maniera troppo bizantina, troppo pretenziosa, che trascenda la mia reale capacità e soprattutto la mia attitudine. Forse spesso tendiamo a sottovalutare il valore di restare lievi, di dimostrarci umani, interrogarci evitando la trappola del prendersi troppo sul serio, sdrammatizzando e magari uscendo in maniera sana anche dai panni della teatralità costruita, quando questa non è una dote a noi connaturata. Per non farlo essere uno stereotipo nel caso specifico della mia indole, non perché sia sbagliato in assoluto. Perché sentiamo il bisogno di mantenere tutto reale.
Circa la scelta dell’inglese, è colpa della maggiore familiarità di sempre, da parte mia, con l’esterofilia. Apprezzo anche molta musica in italiano, ci sono cantautori sopraffini, quasi inarrivabili, ma gli italiani che oggi preferisco, neanche a dirlo, cantano in inglese. E li trovo bravissimi, al pari di tanti nomi sulla scena internazionale. Quello che ho capito da questi musicisti, spesso veri fuoriclasse, è che non stanno cercando di trincerarsi dietro la lingua, bensì, nutrono l’ intenzione di non escludere la maggioranza della gente che ascolta musica. Internet per fortuna ha stravolto tutto, per cui credo sia plausibile voler comunicare e confrontarsi con ciò che volenti o nolenti, è una delle realtà del mondo in cui viviamo. In questo discorso si può giustamente tirare in ballo l’obiezione del fattore culturale. Non pretendo di aver ragione, ma la mia idea è che, nel determinare i confini della tua idea musicale, nello stabilire i termini della comunicazione che vuoi adottare, circa il linguaggio puoi decidere se sia funzionale il dialetto, perché stai raccontando un tipo di storia magari legata alla tradizione, alle radici; l’italiano, perché ne vuoi raccontare un altro tipo di storia; oppure l’inglese o una qualsiasi lingua, perché sono – è un fatto – elementi del mondo e della società in cui oggi siamo immersi, e in cui la comunicazione ha preso una dimensione ampliata. Fanno parte della nostra formazione culturale, e possono essere usati. Quale sia la lingua che adotti, se resta la tua personale capacità di interpretare e sintetizzare, dettata da ciò che sei, in relazione a quello che hai vissuto, che ti è stato insegnato e che talvolta hai sanamente preso e scardinato, non puoi rischiare di perderti.

Mescalina: Da sempre mi affascina l'aspetto lo fi di alcuni lavori musicali. Spesso è una scelta forzata perché i mezzi a disposizione sono limitati magari. Altre volte è una scelta voluta. Springtime è o no volutamente lo-fi?

Cristiano Pizzuti: Springtime è nato con l’esigenza di essere diretto. Poco complicato, poco lavorato. E’ qualcosa che ci siamo detti immediatamente, per cui la scelta del VDSS Studio, che ha un approccio totalmente lo-fi e fedele al suono, è stata cruciale. Un atto premeditato, anzi, fortemente desiderato. Abbiamo ascoltato clip e produzioni di molti studi da contattare, per mesi, prima delle registrazioni, e nel momento in cui ci siamo resi conto che proprio quello studio, fulcro di straordinarie produzioni non solo del catalogo MiaCameretta, metteva tutti d’accordo senza riserve, abbiamo anche capito in quale direzione sentivamo di andare. Sappiamo bene cosa vogliamo essere musicalmente, e in quale ruolo ci piace giocare, per cui non ci interessava perderci in questioni cruciali per certe produzioni, diametralmente opposte a ciò che ci eravamo prefissati. Ciò che ci interessava era scrivere canzoni, sperando fossero buone, suonarle mille volte in sala prove, elaborarle e costruirle continuando finché non fossimo stati certi di aver dato loro una completezza che dipendesse soprattutto dall’esecuzione piuttosto che dalla produzione. Volevamo avessero una stratificazione dovuta alle parti, che fossero il più possibile complete prima di aggiungere altro in registrazione, per limitare gli interventi di sovraincisione, rendendoli solo discreti abbellimenti e non parti strutturali che servissero a tenere in piedi qualcosa altrimenti incapace di reggersi. Questo lavoro preliminare è servito ad entrare in studio e – in tre giorni – registrare tutto, in analogico, a presa diretta, dormendo direttamente tra gli strumenti, svegliandoci davanti ad un panorama e un paesaggio che potesse nutrire quell’esperienza. Non volevamo perdere il tempo da dedicare al missaggio e al mastering, per metterci a correggere le parti singole in post-produzione, per cui, laddove qualcosa sembrava non convincerci, cercavamo di risuonare piuttosto che editare, facendo altri take daccapo, spesso tutti insieme, giocando sull’esecuzione, sull’espressività d’insieme. Ricordo che prima di scegliere lo studio, abbiamo letto bene l’etica del VDSS e scegliere di lavorare con Filippo Strang, che non è certo il tipo di fonico che ti dice che si aggiusta tutto in post produzione, o che accetta di rimaneggiare e contraffare registrazioni brutte per farle sembrare bellissime, è stato un valore immenso: tutti dovrebbero sentirsi dire che non esiste il copia-incolla, ma che devi semplicemente risuonare e farlo bene, senza giochi di prestigio. Non ci ha creato imbarazzo, piuttosto, ci ha confermato di essere sulla stessa lunghezza d’onda. Siamo diventati in un istante davvero molto amici, ed ha aggiunto tanto, perché espertissimo e appassionato di quei suoni che per noi erano di riferimento. Per tornare alla tua domanda: volevamo registrare un disco che suonasse come suoniamo noi, non ci interessa, e spero non ci interesserà mai, scrivere a tavolino il disco con i crismi del pop commerciale, o brani ideati per scalare le classifiche di gradimento in maniera diversa da come intendiamo la musica. E’ una questione di come concepisci il tuo ruolo in questo sistema, cosa vuoi o puoi permetterti di essere, cosa ti serve, cosa vai cercando, e probabilmente, allo stato dei fatti, un budget più ampio sarebbe stato inutile. Quello che avevamo in mente è esattamente quello che abbiamo avuto. Siamo stati fortunati nel renderci conto di cosa volevamo, delle enormi potenzialità dello studio, della professionalità e l’etica delle persone con cui abbiamo collaborato e probabilmente si è creato un ecosistema in cui ci siamo trovati esattamente in equilibrio. Non è mancato davvero niente che maggior tempo o disponibilità finanziaria avrebbero migliorato.

Mescalina: Pensate che il sound del disco sia la vostra dimensione definitiva o state ancora cercando la strada giusta che più vi rappresenta?

Cristiano Pizzuti: Come ti anticipavo, probabilmente il nostro mondo è principalmente quello legato al suono di tante influenze indipendenti. Alcuni elementi di questa varietà sono presenti in Springtime, altri sono rimasti fuori perché, scegliendo i brani del disco, abbiamo operato una selezione sul materiale sonoro che avevamo e che risultasse più organico insieme. Ci sono quindi altri elementi rimasti fuori dalla selezione per questo disco, ma difficilmente immagino rivoluzioni copernicane in termini di suono. Da ascoltatori appassionati, ci piace tanta musica differente, dal folk, al jazz, al post punk. Siamo entusiasti di scoprire musica che non conosciamo, e la premura maggiore è lasciare questo oggetto che è Black Tail, il più possibile permeabile alle influenze e alle contaminazioni. Quello che invece cercheremo di preservare è l’attitudine, la fedeltà ad una pacificazione con l’approccio diretto e suonato. Per stabilire comunque un punto di ritrovo. Maneggiare cose nuove è una sfida, e penso possa portare valore aprirsi e sperimentare, per cui cercheremo di lasciarci sempre incuriosire da qualcosa, la parola definitivo risulta sempre troppo distante dalla curiosità, dalla necessità di imparare.

Mescalina: L’ultima domanda riguarda il titolo del disco e l’apparente contrasto con le atmosfere dell’album. Volevate forse sottolineare l’aspetto transitorio, se vogliamo di rinascita e di cambiamento che la primavera porta con se per antonomasia?

Cristiano Pizzuti: La transitorietà è un concetto cardine in tutto il disco. Il cambiamento e la rinascita hanno queste connotazioni ambivalenti, per cui si portano dietro amarezza e speranza. Gioca bene far uscire ad ottobre un disco che fa titolo alla primavera, per non banalizzare appunto il concetto. Della primavera, si ha una percezione estremamente positiva, legata alla solarità, al risveglio, ciononostante è anche il periodo di imprevisti mutamenti. Piove per gran parte della stagione, eppure, niente di questo intacca la positività che se ne percepisce, perché idealmente c’è come un protendersi al miglioramento, che più realisticamente è una prerogativa dell’estate, ovvero del futuro prossimo. Se traslitterassimo tutto in termini interiori, emotivi, figurati, in questo ideale periodo di transizione, in cui si equivalgono rovesciamenti per cui non esiste una netta predominanza del positivo sul negativo, a fare la differenza, a stabilire l’entità e la qualità della transizione, sarebbe soprattutto questo proiettarsi verso una reale aspettativa su ciò che verrà. E’ una fase in cui si lotta, ma si inizia ad avere chiara l’idea del motivo per cui è importante farlo. Un motivo che sta davanti, per il quale devi prendere coscienza e avanzare. Ecco, il senso potrebbe essere la presa di coscienza: determinare che si è qualcosa, magari qualcosa di nuovo e reinventato, ma che – in ogni caso – si è. E poi, come avrai capito, ci piace tifare, o forse pensare di appartenere, alle mezze stagioni.

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