Yorgos Lanthimos

Drammatico

Yorgos Lanthimos Kinds of Kindness


2024 » RECENSIONE | Drammatico | Thriller
Con Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Hong Chau, Joe Alwyn, Mamoudou Athie, Hunter Schafer



16/06/2024 di Laura Bianchi
Tre. Tre colori. Tre storie. Tre attori con tre ruoli diversi. Tre, e uno. Unità e trinità, divino e umano, buono e cattivo, vero e falso, uomo e donna. Yorgos Lanthimos non teme di spiazzare il grande pubblico, conquistato dopo La Favorita e soprattutto dopo il recente, vincente Poor Things!, trionfatore a Venezia e agli Oscar (qui il nostro special), e, pochi mesi dopo, épater les bourgeois del Festival di Cannes con un film a tre episodi, con due dei suoi attori feticcio, Emma Stone e Willem Dafoe, a cui si aggiunge uno stratosferico Jesse Plemons (premio come migliore attore protagonista a Cannes, dove appunto il film è stato presentato).

Kinds of Kindness non è infatti un altro Poor Things!, ma, piuttosto, ci fa ripiombare nelle ossessioni materiche, body horror, psicanalitiche e perturbanti del piccolo gioiello Kinetta, o dei lungometraggi degli inizi, pur evolvendo in un senso narrativo più complesso. Con buona pace dei detrattori del cineasta greco, i quali criticano il suo manierismo, la sua mania per i dettagli, la ripetitività delle tematiche, Lanthimos prosegue nel proprio scandaglio della psiche umana e nei suoi rapporti col potere e col controllo, stavolta espandendo le direzioni lungo tre linee: quella delle relazioni lavorative (il primo episodio, con un Dafoe sublime nell'incarnare l'ambiguità del potere di un datore di lavoro a cui tutto è lecito, perfino l'azzardo di chiedere un omicidio al proprio dipendente); del matrimonio (il secondo, claustrofobico, in cui viene esplorata la paranoia di un marito - Plemons - convinto che la moglie, di ritorno da una spedizione rischiosa, sia in realtà un'altra persona); del fanatismo, ideologico o religioso che sia (il terzo, con una Stone mirabile nel dar corpo e sguardo a una donna ossessionata dalla ricerca di una persona che abbia nelle mani il potere di fare risorgere i morti).

Macabro e satirico, caustico e tenero insieme, lo sguardo del regista, coadiuvato dallo sceneggiatore - amico Efthymis Filippou, tornato a collaborare con lui dopo gli ultimi due film, vuole destabilizzare le aspettative dello spettatore, soprattutto di quello che lo ha conosciuto proprio senza Filippou, e presentarsi con tutta la mordace energia delle prime opere, coloristica e fotografica, sinestetica, nel senso totale del termine, perché coinvolge tutti i sensi, sì, anche il gusto, anche l'odore, evocati entrambi in modo potente.

Niente grandangoli, quindi, né ampie partiture musicali, ma echi dissonanti e poche canzoni dal testo esplicitamente referenziale (Sweet Dreams di Eurythmics, all'inizio, e Brand New Bitch, di Cobrah, alla fine), riprese nette, ingrandimenti espressionistici su singoli particolari (esemplare la scena del bacio tra Stone e Dafoe nel terzo episodio), simmetrie ed echi che si rispondono, legati insieme dalla presenza - assenza del personaggio che dà il titolo ai tre episodi, quel R.M.F., che ha un volto che richiama quello dello stesso regista. 

Importanti per la comprensione sono i dettagli fisici, disturbanti, ossessivi, morbosi, col corpo in primo piano, esibito, spogliato, mutilato, leccato, esaltato, odiato e amato, oggetto e soggetto onnipresente, smaccatamente queer, o il cibo come veicolo di piacere, ma anche di dolore, di punizione, di riscatto e di segno vitale, o gli animali come doppio degli uomini (a cui è dedicato perfino un corto nei titoli di coda del secondo episodio, forse il vero centro del messaggio).

Al centro di questa complesso pentagramma di interconnessioni, Lanthimos dirige la partitura conducendo lo spettatore a collaborare con lui nella ricostruzione del senso complessivo dell'intera opera; in equilibrio precario tra attualità e mito, tra sogno e realtà - a volte più concreto il primo della seconda, nonostante l'insistito bianco e nero -, tra individuo e il suo doppio, il film si snoda con una propria, intima, coerenza, e interroga lo sguardo di chi segue le vicende, in un percorso certamente intellettualistico, ma che invita a una riflessione profonda sul dolore nella nostra società contemporanea, malata - quanti ospedali nel film! -, devota al consumo e al possesso, bisognosa di gentilezza e di amore, ma debole e fragile nella loro ricerca.

Non vada a vedere Kinds of Kindness chi vuole un film hollywoodiano, monumentale, o denso di buoni sentimenti, né chi si aspetta i modelli precedenti del cinema di Lanthimos, primo tra tutti Kubrick; qui ci sono piuttosto il Bong Joon-ho di Parasite, o molto cinema coreano, oppure, per chi ancora se lo ricorda, il compianto Fassbinder.

Vada a vedere Kinds of Kindness chi vuole vedere un pugno di attori che lascia il segno. E chi vuole lasciarsi prendere e sorprendere da un film che resta dentro e lavora per giorni dentro il nostro inconscio, perché, che lo vogliamo o meno, ci rappresenta tutti.