Lasciato sbollire il momento delle polemiche dopo il discusso premio al Festival del cinema di Venezia (Tarantino che con la sua giuria premia la sua ex, figlia di uno dei suoi idoli…), è forse il caso di analizzare a freddo la quarta controversa opera di Sofia Coppola, questa volta confezionata e prodotta tutta in casa, con interventi di padre, fratello, compagno. La prima cosa che si nota è la differenza notevole per tematiche e ambientazioni rispetto alle opere precedenti, soprattutto allo splendido esordio delle “Vergini Suicide” e all’ultima “Maria Antonietta”. In parte dei punti di contatto ci sono solo con il bellissimo “Lost in Translation”, dove il protagonista è una star e una delle ambientazioni è un albergo. Però attenzione, in questo -parziale- parallelo c’è una differenza enorme: l’ironia. Se con Bill Murray dis-perso nell’estraniante Tokyo si rideva senza assistere a una commedia, i toni dell’ultima fatica della Coppola sono molto diversi. Nella scarnissima storia della star Johnny Marco c’è poco spazio per ironia e situazioni buffe, c’è solo spazio per l’inedia e il vuoto mentale del protagonista che, quando non si fa scivolare addosso le cose, passa interminabili momenti sul divano, senza fare nulla. Tutto sembra essere sconvolto dall’arrivo della sua tenera figlia Cleo, che passa con lui diversi giorni. Se con lei Johnny tira fuori il suo lato affettivo, sembra chiaro fin da subito che ciò è fatto con lo stesso vuoto di fondo irrecuperabile della sua vita. E allora in mezzo a storie senza futuro, a momenti di soddisfazione circostanziati, a messaggi più che espliciti (il giudizio morale sul protagonista è scandito da sms molto eloquenti), Johnny crolla solo alla fine, nel suo unico vero momento di umanità, e allora tutto non sembra essere più recuperabile. E crolla anche la piccola Cleo, più per il momentaneo abbandono da parte della madre che per l’assenza molto più consistente del padre. Per rendere tutto ciò, la Coppola crea una coppia tra le più affiatate viste ultimamente nei cinema: da una parte un personaggio-attore interpretato magistralmente da un semi-sconosciuto Stephen Dorff e dall’altra una più che promettente Elle Fanning. Insieme riescono a dare tanto al film, anzi quasi tutto visto che dal punto di vista della sceneggiatura c’è ben poca sostanza. A lunghi tratti sembra che la regista non sappia dove andare a parare, sembra dirci e non dirci, inserendo -volutamente- dei tempi morti che sembrano non finire mai. Queste parti di silenzio fanno pensare ad un film di Jarmusch, il quale, con la stessa storia, probabilmente avrebbe fatto un film molto migliore. Forse il film torna su dopo diverso tempo dalla visione, lo si apprezza più a distanza. In ogni caso una cosa stona: l’inserimento della notte italiana dei telegatti, un’esperienza particolarmente kitsch che, a quanto pare, non voleva essere tale, a detta della stessa autrice (un tentativo di salvarsi in extremis?). Fatto sta che l’inserimento del peggio del peggio della cultura mass-mediatica nostrana (Simona Ventura, Valeria Marini), dà fastidio anche come critica. E poi qualcuno ci dovrebbe spiegare cosa c’entra un Nichetti con tali personaggi. Questi sono punti di domanda che rimangono e che stonano abbastanza in un film in parte noioso e in parte incompiuto ma che senza di loro manterrebbe uno stile ben definito. Rimane un film di medio livello, soprattutto rispetto ai primi tre della filmografia della regista californiana, con una grande prova d’attore e una promettente attrice, qualche bella scena indimenticabile (il massaggio su tutte), ma oltre a questo rimane ben poco, soprattutto da un film che vince a Venezia.