Sofia Coppola

Sofia Coppola LOST IN TRANSLATION


2003 » RECENSIONE |
Con Bill Murray, Scarlett Johansson

di Claudio Mariani
A volte basta solo un accenno, un piccolo gesto, oppure un tocco leggero, uno sfiorare, per dire molte cose, più di quanto si riuscirebbe con un grande gesto, subito riconoscibile. Questa è la sensazione che ci lascia la seconda opera di Sofia Coppola: una sensazione di amaro, ma nello stesso tempo dolce come il sapore dei sogni impossibili, proibiti e delle cose che non faremo mai perché magari troppo rischiose. No, non stiamo parlando della forza dirompente delle azioni, ma siamo piuttosto nella sfera dei sentimenti, quelli che i due protagonisti esprimono con gli occhi, con gli sguardi e, soprattutto, con le parole che non si dicono. Già il titolo, interpretabile, poteva dirci qualcosa, Lost in Translation, letteralmente “perso nella traduzione”, che si può intendere sia dal punto di vista dell’ambientazione e dai problemi dei protagonisti nella terra giapponese, sia dal fatto che certe cose importanti possano essere perse nella traduzione dei pensieri in parole, che spesso e volentieri escono non nella forma in cui si vorrebbe farle uscire. Ci si potrebbe tacciare di ragionamenti eccessivi riguardo questa pellicola, che in fondo in fondo ha una storia semplice e piatta, ma non è così, il film è proprio questo, e anche se le interpretazioni possono essere molteplici, dopo un sereno ragionamento, sarebbe impossibile non giungere a queste conclusioni. Dicevamo che la storia è piatta: una star del cinema ultracinquantenne, Bob, si trova sperduto in Giappone per girare uno spot per un whisky del luogo, e nelle serate incolori e noiose del grande albergo dove risiede, nota una giovane ragazza, Charlotte, che accompagna il marito fotografo in uno dei suoi viaggi di lavoro. Tra i due nasce subito un’amicizia particolare, un crescente affetto dovuto al fatto di sentirsi isolati non solo nei confronti di una società così diversa dalla loro, ma anche nei confronti delle loro storie d’amore, così lontane e differenti. Ma nulla si diranno, lasceranno tutto appunto agli sguardi e ai gesti. Intanto sullo sfondo una Tokio caotica, alienante, espressione massima del paradosso della città moderna, tutta luci e niente altro. Sofia Coppola ha voluto cambiare direzione dopo l’ottimo esordio del Giardino delle Vergini Suicide, un’altra storia, con qualche accenno di comicità, a tratti simile al film precedente forse per il sottofondo di instabilità, ma distante anni luce per la sensazione di tragedia sempre presente nella prima pellicola. In questo caso la figlia d’arte più importante del cinema americano contemporaneo fa un passo avanti, rischiando nel cambiamento di genere e di direzione, forse non replicando, in termini di qualità artistica, la sua opera prima, ma avendo il coraggio di affrontare temi molto diversi. Un’opera seconda positiva, da vedere, che non prende subito, ma il cui eco rimane nella testa dello spettatore, assieme al dolce viso della brava Scarlett Johansson e a quello dell’ottimo riciclato Bill Murray. In questa operazione riuscita la Coppola ha trovato ancora una volta nella musica il plusvalore assoluto della pellicola: se nel suo primo film si era rivolta agli Air, adesso ha affidato la colonna sonora a Kevin Shield dei My Bloody Valentine, che gli appassionati di shoegazer di fine anni ottanta e dintorni non possono non ricordare, musica che ci accompagna durante tutto il film e che, con la canzone scelta per il finale, ci fa venire i brividi lungo la schiena: Just like honey, di due fratellini scozzesi dal cognome Reid (al secolo Jesus & Mary Chain)!
Ultimo avvertimento, attenzione al sottotitolo in italiano: L’Amore Tradotto! È un’operazione dei distributori per confondervi le idee, traducete voi, è meglio, molto meglio e meno pericoloso…

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