Martin Mcdonagh

Commedia

Martin Mcdonagh Gli spiriti dell`isola


2022 » RECENSIONE | Commedia | Drammatico
Con Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan, Gary Lydon



06/02/2023 di Laura Bianchi
Un consiglio, per cominciare: non andate a vedere The banshees of Inisherin, o Gli spiriti dell'isola (la traduzione del titolo, come spesso accade, non coglie il senso del film), "perché è candidato a nove Oscar".

Andateci perché volete immergervi in un film completo, fatto di silenzi e dialoghi, di intensi primi piani e spettacolari scenari naturali, di Storia che resta in secondo piano, contraltare delle storie che si sviluppano nella piccola, immaginaria isola di Inisherin, alias Inis Mór (Inishmore), una delle splendide Isole Aran, sulla costa Ovest dell’Irlanda (e posso assicurarvi che, in quell'angolo di Irlanda, così come in un’altra location in cui il film è stato girato, Achill Island, i cento anni, che separano l'oggi dal momento in cui si svolge la vicenda, sembrano proprio non essere trascorsi…).

La storia, appunto: una dramedy, che, scritta e diretta da Martin McDonagh, vede di nuovo insieme Brendan Gleeson e Colin Farrell, protagonisti di In Bruges, del 2008, stavolta in un testa a testa interpretativo che avvince, coinvolge, e fa profondamente riflettere. Perché la storia minima di Colm Doherty (un monumentale Brendan Gleeson, che in questo caso suona personalmente il violino, senza controfigura, le splendide melodie irish di Carter Burwell), che di punto in bianco dice impassibile a Pádraic Súilleabháin (un pensoso e ingenuo Colin Farrell) che la loro amicizia decennale è finita (“perché non mi vai più a genio…”), e di quest’ultimo, che non si rassegna a perdere il suo migliore amico, diviene, grazie al tocco magistrale di McDonagh, un apologo sulla gentilezza, sulla malvagità, sulla durezza del vivere quotidiano e dei rapporti interpersonali, perfino in un fazzoletto di terra sospeso nell’Atlantico, da dove si odono gli spari della guerra civile che infuria sulla terraferma.

Sui sentieri dell’isoletta cammina una manciata di esseri esistenzialisticamente gettati lì dal caso, o da un destino a volte benevolo, altre beffardo, che li costringe a cercare di lottare ogni giorno contro i propri dèmoni, contro una disperazione così simile alla nostra, anche se ha un passo, un ritmo e una cadenza diverse dalla nostra. C’è una donna fragile e forte, Siobhán (l’incredibilmente espressiva Kerry Condon), sorella di Pádraic, che trova nella lettura il proprio senso; c’è Dominic Kearney (il camaleontico, bravissimo Barry Keoghan), un ragazzo ritenuto da tutti lo scemo del villaggio, che in realtà rivela un vissuto doloroso e una sensibilità acutissima; c’è una presenza stregonesca e inquietante, simile alla Morte del Settimo Sigillo di Bergman, la signora McCormick, forse una banshee (creatura leggendaria della mitologia scozzese e irlandese, cui fa riferimento il titolo originale, e che si pensa predica la morte), o forse solo una donna sola ed emarginata; e ci sono gli animali, i veri spiriti dell’isola, gentili, fedeli, pazienti, su tutti Jenny, l’asina nana adorata da Pádraic, che meriterebbe di ricevere un Oscar alla migliore interpretazione animale. La vera banshee sembrerebbe invece essere la stessa melodia, che Colm si ostina a voler comporre, in un desiderio tardivo di essere ricordato dopo la morte, ma che si rivela la causa prima della fine di un’esperienza gentile e buona, l’unica che meriterebbe di essere preservata e amata: l’amicizia con il semplice, noioso, ma fedele Pádraic.

La vicenda è luminosa e scura insieme, come il tempo in Irlanda, come la natura che circonda e condiziona gli uomini; la vita, sembra dirci il regista, è un percorso accidentato, un coming of age costante, un apprendistato continuo, un equilibrismo fra gentilezza repressa e cattiveria esibita, che gronda sangue, lacrime, sorrisi e dolcezza, e che nemmeno la fede in un qualsiasi Dio riesce a comporre. Sul tutto, lo sguardo degli animali, che sembrano vigilare sugli uomini, senza giudicarli, osservandoli da dietro i vetri, o riflessi nel solco del loro lavoro, e dai quali McDonagh sembra lanciare l’unico messaggio positivo dell’opera: dovremmo avere la mitezza resistente di un’asina, la fedeltà indefessa di un cane, per tornare a essere davvero umani.

Opera visionaria e concreta, necessaria, in questi tempi senza respiro, per ricordarci chi siamo.




Martin Mcdonagh Altri articoli

Martin Mcdonagh Tre manifesti a Ebbing, Missouri

2017 Drammatico
recensione di Claudio Mariani