Jazz Reloaded, anni 2010

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Jazz Reloaded, anni 2010 Trent'anni nel segno del cambiamento

28/03/2021 di Pietro Cozzi

#Jazz Reloaded, anni 2010#Jazz Blues Black#Jazz

30 anni di Jazz visto dalla prospettiva non scontata. Un viaggio temporale nel quale sarete accompagnati dai 3 Kings of Jazz della redazione. Terza puntata.
Jazz Reloaded 1990 - 2000 - 2010 trent'anni nel segno del cambiamento

Il jazz è morto? Vexata quaestio sulla quale molti si accaniscono con pollice verso. Nulla è arrivato dopo Duke, Satchmo, Bird, Miles e Coltrane; tutto è già stato detto. Per noi di Mescalina questo è un grosso abbaglio, una valutazione superficiale frutto di ignoranza e ammuffita spocchia generazionale. Per testimoniare la ricchezza del jazz contemporaneo la redazione ha deciso di proporre questo speciale relativo all’ultimo trentennio, periodo molto poco trattato nella letteratura corrente. Certo, siamo ancora nella cronaca e non nella storia, ma i sintomi della vitalità ci sono tutti. Il lavoro riporta quindici titoli per ogni decennio con l’obiettivo non tanto di un'impossibile esaustività ma piuttosto di un invito alla scoperta. La ricerca si è orientata a individuare opere significative per la formazione di nuovi sentieri e sinceramente crediamo di aver offerto un buon contributo, utile per favorire una visione aggiornata del genere. Ovviamente si potrà obiettare che all’appello mancano molti riferimenti, ma ogni scelta presuppone una rinuncia senza tuttavia compromettere ulteriori aperture. Buona lettura e soprattutto buon ascolto a chi deciderà di sondare almeno qualcuna delle traiettorie presentate. (Redazione Jazz)



Sommario

DECADE 2010

 

Noah Preminger

Before The Rain

Palmetto (2011)



Tutto ti aspetteresti da un tenorista newyorkese dell'ultima generazione fuorché un disco di ballate old fashioned, tra melodie curate, atmosfere sognanti e delicato romanticismo. Nativo del Connecticut ma residente a Brooklyn, formatosi alla scuola di David Liebman, Preminger è un geniale “giovane vecchio” capace di dimostrare come l'intonazione, il timbro e il perfetto uso del vibrato possano essere il miglior viatico anche per il sassofonista del terzo millennio. Registrato in quartetto, Before The Rain regala le emozioni in bianco e nero dei vinili di una volta: non per nulla il nostro cita tra le sue epifanie musicali John Coltrane and Johnny Hartman (1962), ma è difficile non riesumare anche Coleman Hawkins, Ben Webster, Lester Young. “È un disco che scava nella bellezza in posti vecchi e nuovi, e spesso la trova”, ha scritto NPR Jazz.

 

Tim Berne-Jim Black-Nels Cline

The Veil

Cryptogramophone (2011)



Difficile non immaginare danni strutturali per i muri di The Stone, il locale del Greenwich Village fondato da John Zorn che ha ospitato questa furiosa improvvisazione live a cura di tre grandi interpreti della modernità in musica. Il power trio formato da Tim Berne (sax alto), Jim Black (batteria) e Nels Cline (chitarra) attacca la spina e non molla il colpo per quasi un'ora, mescolando senza soluzione di continuità free jazz, funk-rock, metal e una variegata tavolazza di effetti elettronici. Non c'è nulla di scritto, al punto che la partizione delle diverse sezioni è stata scelta a cose fatte. Tra gemiti e iterazioni del sax, percussioni muscolari e il variegatissimo fraseggio della chitarra, è Black a scandire tempi e modi di una “conversazione” dove prevale soprattutto un ruvido suono urbano, anche se non mancano digressioni più introspettive, da leggersi come allucinate discese nell'inconscio.

 

JD Allen Trio

Victory!

Sunnyside Records (2011)

 

“Sprecar note è come sprecar tempo”, sentenzia JD Allen, tant'è che in questo terzo disco a suo nome centellina con parsimonia 12 brani che si aggirano intorno ai tre minuti, quasi fosse un pop singer. Il risultato gli dà ragione a tal punto che ti sorge il dubbio che non siano i colleghi a sprecar risorse ed energie. La naturalezza con cui fa sgorgare la melodia, sostenuta da una sonorità robusta e piacevolmente tradizionale, ricca di riferimenti ai tenoristi del passato, conquista al primo ascolto. Esordiente a 27 anni per un'etichetta italiana (Red Records), il ragazzo di Detroit resterà fedele alle formula del trio pianoless, inventata nella seconda metà degli anni Cinquanta dal suo illustre predecessore Sonny Rollins, privilegiando di volta in volta le ballate (come in questo caso) o un approccio più deciso e muscolare.

 

Cécil McLorin Salvant

WomanChild

Mack Avenue (2013)



Innestarsi sulla scia della gloriosa tradizione del jazz vocale al femminile, che per gran parte del pubblico incarna l'essenza stessa di questa musica, non è certo un facile viatico per una giovane cantante di colore. Ma Cécil McLorin Salvant, alle prese con l'eterno confronto con le regine del passato, dimostra di cavarsela alla grande. In questo suo secondo lavoro, che si divide tra originali e standard mai scontati, le riesce di evocare i fantasmi di Billie Holiday, Sarah Vaughan ed Ella Fitzgerald e al contempo affermare la sua prepotente personalità, fatta di fraseggio originale e delle mille nuance della sua voce. Accompagnato da una sezione ritmica di all star della Lincoln Center Jazz Orchestra, WomanChild mescola jazz, blues, rhythm and blues, talking e vaudeville, appoggiandosi su una voce dotata di mezzi tecnici infiniti.

 

Ambrose Akinmusire

The Imagined Savior Is Far Easier to Paint

Blue Note (2014)



Californiano, classe 1982, il più acclamato trombettista della sua generazione non si limita a giocare al ragazzo-prodigio del suo strumento ma coltiva la vocazione di compositore e organizzatore di progetti ambiziosi. Per stupirsi della sua abilità tecnica basterebbe l'iniziale Marie Christie, dove sopra le semplici note del piano, e senza una vera melodia, alterna timbri, dinamiche ed emozioni con imbarazzante nonchalance. Ma il resto di The Imagined Saviour racconta, in quasi 80 minuti di narrazione, anche molto altro. In un clima di pacata e creativa riflessione si gustano gli arrangiamenti ben congegnati, l'interplay in perfetta comunione di intenti con il sax e la chitarra e le aperture alla musica classica e vocale. All'estremo eclettismo musicale si accompagna l'impegno sociale: in Rollcall for Those Absent la voce di un bambino declama i nomi di alcune giovani vittime di colpi d'arma da fuoco negli Usa.

 

Steve Lehman Octet

Mise En Abime

Pi Recordings (2014)



Formatosi con Anthony Braxton e Jackie McLean, influenzato dallo spettralismo francese, il professor Lehman è un musicista-scienziato che si muove al confine tra classica contemporanea e jazz, e sa farlo talmente bene che di “professorale” rimane ben poco. Al centro di tutto, nella musica spettrale, sono il timbro del suono e le sue diverse frequenze, che vengono mescolate insieme per creare un'armonia originale. È il caso di questo ottetto, dove convivono ben cinque fiati diversi (sax tenore, sax alto, tromba, trombone e tuba) e il vibrafono funge da instancabile collante. Il risultato è una musica multistrato e di grande fascino, sia per l'intreccio di timbri e tempi differenti che per le sonorità ambigue e sinistre (“spettrali”, appunto), mentre sullo sfondo la pulsazione rimane piacevolmente funky. La farina è tutta del sacco di Lehman, che ci mette anche i suoi fulminei interventi al sax.

 

Mary Halvorson

Meltframe

Vinyl (2015)



Niente rischia di comunicare un'impressione di narcisistico virtuosismo quanto un disco di chitarra solista, ma non è il caso di Meltframe, che Halvorson riempie della sua strabordante eppure concretissima personalità, nascosta dietro lo sguardo timido di ragazza della porta accanto. Cresciuta alla scuola di Anthony Braxton e Marc Ribot, leader di diverse formazioni, la musicista del Massachusetts ha scelto il suo strumento dopo un'infatuazione giovanile per Hendrix e lo ha preferito ad altri per la sua ubiquità e la minor vicinanza a un genere definito. Free jazz, avanguardia, rock e psichedelia si affastellano in questo disco di reinterpretazioni di brani di Ellington (l'incantata Solitude), McCoy Tyner (Aisha) e Ornette Coleman (Sadness). L'arrovellarsi intorno a riverberi ed effetti conta quanto la scelta dei silenzi, delle pause, delle note sospese. E chiedersi a che genere appartenga l'ispida versione di Cascades di Oliver Nelson è forse un esercizio inutile.

 

Kamasi Washington

The Epic

Brainfeeder (2015)



Oggetto di infatuazioni esagerate e di odi altrettanto omerici, che ben si addicono al tema, questo triplo disco è lo specchio perfetto del suo principale artefice. Pantagruelico e strabordante, The Epic è in tutta evidenza il lavoro di una vita del sassofonista californiano, un'opera orchestrale che riunisce tre fiati, due tastiere, una nutritissima sezione ritmica, due voci, una sezione di archi e un coro. Nel fiume in piena di tre ore abbondanti di musica, che Kamasi dirige con il piglio di un moderno Mingus, si alternano poderosi riff orchestrali, la vasta gamma dei diversi solisti e gli assoli del tenore, che raggiungono vette di straziante parossismo alla Pharoah Sanders. Volenti o nolenti, con Washington bisogna fare i conti, perché è l'unico che riesce a far parlare di jazz fuori dai confini di questa musica, che lui preferisce chiamare B.A.M. (Black American Music), in omaggio anche al supremo sforzo di sincretismo tra generi “neri” che si respira tra questi solchi.

 

Jonathan Finlayson & Sicilian Defense

Moving Still

Pi Recordings (2016)



Il nome del gruppo di Finlayson allude a una specifica mossa d'apertura negli scacchi, e una lettura in parallelo tra la sua musica e un gioco che richiede al tempo stesso strategia e creatività, pianificazione e fantasia, può essere stimolante. Componente di lungo corso dei Five Elements del sassofonista Steve Coleman, il trombettista cattura l'attenzione con le sue composizioni ammalianti e ben strutturate, per poi accompagnare l'ascoltatore, quasi senza soluzione di continuità, sui sentieri dell'improvvisazione, attraverso un fraseggio pulito e capace di evocare emozioni raffinatissime. Il quintetto messo insieme per questo secondo disco a suo nome lo spalleggia nel migliore dei modi, a cominciare dal raffinato intreccio armonico tra chitarra e pianoforte.

 

Snarky Puppy

Culcha Wulcha

GroundUP (2016)



Portabandiera della fusion nel terzo millennio, gli Snarky Puppy sono una jam band a geometria variabile e a gestione familiare, capace di attrarre un vasta base di fan e di fidelizzarla con instancabili tour de force di concerti e una strabordante produttività. Formata nel 2004 dagli allora studenti della University of North Texas, sotto la guidata dal bassista e compositore Michael League, “the Fam” non ha mai smesso di collezionare ispirazioni da tutto il mondo. E Culcha Wulcha ben descrive, anche onomatopeicamente, una tecnica di scrittura che intorno a solidi groove multistrato plasma una coacervo di influenze diverse: jazz, funk, rock, fusion, percussioni asiatiche e sudafricane, riff e fiati Motown, ritmi di New Orleans. Una delle autostrade del jazz del presente, e del futuro, sfreccia sicuramente dalle loro parti, anche se il passato prossimo, fatto di arene stracolme per godersi i Weather Report o la Mahavishnu Orchestra, è appena dietro l'angolo.

 

Craig Taborn

Daylight Ghosts

ECM (2017)



Tra le diverse interpretazioni dell'“ECM sound” negli anni Dieci, questo terzo lavoro di Craig Taborn per la casa discografica bavarese spicca al tempo stesso per aderenza all'estetica eicheriana e originalità. Pianista, tastierista e compositore di certosina finezza, dopo un disco solista e uno in trio Taborn approda, in naturale e spontanea progressione, a un quartetto con Chris Speed ai fiati. I brani, tutti originali ad eccezione di Jamaican Farewell, omaggio a Roscoe Mitchell, si beano di una sorniona indeterminatezza, che si configura come una sorta di “spettrale” terza via tra l'abbandono al lirismo e gli eccessi di complicati virtuosismi strumentali. Ma il gioco è anche tra tensione e rilascio, perché qua e là si lascia sfogo alla melodia, sempre labirintica e spigolosa, e all'improvvisazione.

 

Tyshawn Sorey

Pillars

Firehouse 12 Records (2018)



Virtuoso multistrumentista, compositore-improvvisatore dotato di talento visionario, Tyshawn Sorey, qui impegnato alle percussioni e al trombone, richiede all'ascoltatore profonda dedizione spirituale e una disponibilità di tempo illimitata. Pillars è un disco che si configura come un rito religioso, o una lunghissima sinfonia afroamericana: tre cd per tre sole tracce da un'ora e un quarto l'una, contraddistinte da numeri romani (I, II, III). All'opera c'è un ottetto elettro-acustico che raramente lavora all'unisono, perché nel lungo continuum musicale in cui si muovono Sorey e soci prevalgono assoli e sequenze di set che coinvolgono un paio di strumenti alla volta, facendo emergere atmosfere inquiete, rumori e timbri misteriosi, suoni elettronici. L'impressione di staticità è presto vinta da quella di movimento, millimetrico e minimale ma instancabile. “Jazz” è un'etichetta di comodo perché siamo oltre ogni categorizzazione, anche se si avverte forte l'influenza dei rituali dell'Art Ensemble of Chicago, dello sperimentalismo di Anthony Braxton e della musica classica contemporanea.

 

Jazzmeia Horn

Love And Liberation

Concord (2019)



Texana di nascita ma newyorchese d'adozione, Jazzmeia Horn fa onore al suo clamoroso nomen omen. Nonostante l'ancor giovane età, questa talentuosa trentenne conferma una spudorata capacità di sfoggiare i propri mezzi e, al tempo stesso, uno straordinario controllo del suo strumento. Eccelle nello scat che mutua direttamente dalle divine del jazz di un tempo, ma sa anche sfoderare una melodiosa sensualità nelle ballate, giocare con lo swing più spigliato o affondare nelle oscure trame del blues. Resistere al talking e ai sensualissimi sussurri di Time o al dialogo con il contrabbasso, molto empatico e parecchio improvvisato, della conclusiva I Thought About You è impresa ardua. Alla seconda uscita siamo già al cospetto di una futura star che con pieno merito sta allargando i confini delle propria audience muovendosi tra jazz classico, neo-soul contemporaneo e pop.

 

Avishai Cohen

Big Vicious

Ecm (2020)



Il trombettista israeliano guida un quintetto fatto in casa, che a tratti ha più lo spirito di una rock band, anche se il suono è talmente vellutato che si può quasi accarezzare. Assemblati con fresca e giovanile originalità, i Big Vicious interpretano il jazz come chiave di rilettura di una vastissima quantità di fonti, da Beethoven ai Massive Attack, senza ovviamente tralasciare l'abbondante produzione originale. L'ammaliante afflato melodico delle tromba davisiana di Cohen è padrone del campo, impreziosito da tocchi di elettronica e psichedelia cosmica e sostenuto da un solido beat pop-rock. Il sottile gioco di contrasti tra il gusto antico per la melodia, gli echi della modernità e l'orecchiabilità ritmica fa di questo lavoro un autentico disco-ponte, capace di richiamare l'attenzione di un pubblico vasto. Consigliato a tutti, si diceva un tempo.

 

Laura Jurd’s Dinosaur

To the Earth

Edition (2020)



Rising star del jazz britannico, questa giovane musicista proveniente dal sud dell'Inghilterra si sta costruendo una meritata fama grazie a un'innegabile e spontanea originalità. Accompagnata da un quartetto stabile, Laura Jurd ama la solarità delle melodie ma sa anche scavare in un giacimento di umori folk e richiami al jazz tradizionale. Il risultato è una musica di andamento mutevole, a tratti piacevolmente sconnesso, che assomiglia parecchio a una conversazione animata o a una piece ricca di humour, assecondata alla perfezione dai ritmi sgangherati e dai giochi percussionistici dei suoi colleghi. A Miles Davis, soprattutto a quello di In A Silent Way, la trombettista deve il tono e il lirismo (For One è quasi una citazione diretta), ma nel suo stile così ricco di grugniti e mugolii riecheggiano anche trombettisti del passato come Bubber Miley o Cootie Williams.

La voce di un Tom Waits d'annata, magari su Absinthe, omaggio a Duke Ellington, ci starebbe benissimo.