Petrigno La lingua del santo
2024 - Vina Records
Le prime due tracce Il mare e Nella folla preparano i piatti di portata, conditi da arrangiamenti che ci immergono in uno strano mix acido tra il Robert Fripp degli anni ruggenti e l’urgenza di suoni ruvidi di certo “garage rock americano”. Da subito colpisce quell’anima blues che emerge, in alcuni casi, prendendo il sopravvento, come ad esempio in Fermati.
L’autore sembra voler disturbare chi ascolta, spiazzarlo; e ci riesce quasi sempre. D’altra parte lui si descrive inesatto, e questa sua definizione (che, premetto, a me piace molto) rende perfettamente la cifra che permea questo lavoro. Ci sono talmente tanti spunti, sia nelle sonorità sia nei testi, da provocare (a tratti) un senso di leggera vertigine. Attenzione però che questo non è un limite, ma casomai un valore aggiunto. Un'atmosfera complessa e oscura, che racconta una storia di disagio, ma anche (e soprattutto) di redenzione.
Arriva la folgorazione e la sintesi di quello che attendevo: Ho perso, che è tra i brani che mi hanno colpito maggiormente, forse perché mi ci ritrovo istintivamente, o forse semplicemente perché c’è la somma della rabbia; rabbia che si trasforma in scarica elettrica: uno schizzo di vernice su una scalinata di marmo bianco.
Chiude il disco Tu lo sai, sciogliendo finalmente i nodi e regalandoci una briciola intima, intensa e delicata.
Comunque, per la cronaca, parliamo di un bravo autore polistrumentista, che con questo esordio ci richiama a considerare la formula “canzone” come una forma d’arte alta e (ancora una volta) in grado di non essere banale.