Damage Control <small></small>
Jazz Blues Black • Blues

Curtis Salgado Damage Control

2021 - Alligator Records

20/03/2021 di Leandro Diana

#Curtis Salgado#Jazz Blues Black#Blues

La leggenda, Wikipedia e la biografia ufficiale (che spesso sono la stessa cosa) narrano che il personaggio del film The Blues BrothersCurtis” (quello che suonava l’”ARPA” in cantina…), interpretato da Cab Calloway, fosse ispirato a Curtis Salgado, che John Belushi aveva conosciuto pochi anni prima durante le riprese di Animal House in Oregon, patria di Salgado.

Al di là del mito (e delle amicizie altolocate), le credenziali di Salgado sono solide e risalenti: dal ruolo cantante e armonicista della Robert Cray Band nel volgere del decennio tra gli anni ’70 e gli ’80, a frontman dei Roomful of Blues a metà degli anni ’80, e poi la carriera solista prima con la ditta Curtis Salgado and the Stilettos (con una parentesi nel 1995 come frontman della band di Carlos Santana) e poi più semplicemente con nome e cognome. Una lunga carriera ricca di riconoscimenti e collaborazioni (bello il disco del 1997 con il chitarrista Terry Robb Hit it ‘n quit it) ma senza mai raggiungere il successo di massa.

A tre anni di distanza dall’ultimo Rough cut (2018, in contitolarità con il chitarrista Alan Hager), pià concentrato sulla riscoperta delle radici blues, Salgado torna alla relativa “solitudine” della propria carriera solista con questo Damage Control per la Alligator Records, e quindi ad esplorare il blue eyed soul alla Blues Brothers più che il blues tradizionale (relegato ai dischi-collaborazione), ma il risultato resta ottimo e sempre credibile e godibile.

Realizzato nel corso di diverse sessioni in tre studi tra Nashville e la California del Sud, con diversi turnisti di gran talento (tra cui Tony Braunagel – qui in veste di solo batterista e non anche di produttore, come ormai era una consuetudine per Salgado – il chitarrista Johnny Lee Schell e l’hammondista extraordinaire Mike Finnigan) e composto quasi esclusivamente da inediti composti da Salgado con alcuni di questi musicisti, Damage control è un disco vivace, dalle atmosfere live e dalle sonorità variegate, pur nell’ambito di certo rhythm’n’blues, in cui l’ispirazione non cede mai del tutto il posto al mestiere. E, d’altra parte, dopo un paio di tumori e un trapianto di fegato i temi su cui riflettere e farci riflettere a Salgado non mancano certo, così come la voglia e l’urgenza di suonare.

Apre le danze The longer that I live, introdotta da un piano gospel presto sopraffatto dall’esuberante organo hammond di Finnigan che spadroneggia per tutti i quasi quattro minuti del pezzo, e che inevitabilmente rimanda a quelle sonorità soul leggere e briose rese universalmente celebri dal già citato The Blues Brothers, con tanto di coda parlata in stile Shake your tailfeather. What did me in did me well parte con un aggressivo riff di chitarra che mette in moto un groove in minore che pur lasciando presto spazio a strofe e ritornelli più “discorsivi”, torna nella coda finale costituendo l’ossatura di una bella jam session in cui la chitarra elettrica sale in cattedra unendosi e intracciandosi con pianoforte ed hammond, che hanno fino a quel punto dominato l’arrangiamento (dividendosi le parti con più equilibrio rispetto alla canzone precedente); peccato la sfumino così presto!

You’re going to miss my sorry ass racconta una lite tra moglie e marito cui Salgado ha assistito davvero durante una blues cruise (crociere con artisti e relativi concerti a tutte le ore del giorno e della notte, ormai molto diffuse oltreoceano per tutti i generi musicali) con un bel boogie guidato dal pianoforte in pieno stile barrelhouse, ma senza rinunciare a uno stilosissimo lungo finale rallentato; niente di nuovo sotto il sole, ma decisamente gradevole. Precious time è il primo pezzo del disco dalle atmosfere più rockeggianti, ma rockeggiante come poteva esserlo una canzone del Joe Cocker anni ’80. Da segnalare una gradevole slide a impreziosire l’arrangiamento, ma un po’ troppo sepolta nel mix; che vede, invece, i cori un po’ troppo in evidenza. Segue il twist in pieno stile anni ’60 Count of three, sul quale non c’è, sinceramente, granché da segnalare. Con Always say I love you (at the end of your goodbyes) arriva la prima vera ballata del disco, guidata – come di consueto – da pianoforte e hammond, elegante e crepuscolare. Peccato per il ritmo un po’ troppo rigido che la fa pendere pericolosamente verso il pop: un po’ di swing in più avrebbe contribuito a ridurre la patina di sovrapproduzione e dare più respiro e autenticità. New Orleans fa capolino tra gli ottoni, il ritmo e i cori di Hail Mighty Caesar.

Anche qui, però, l’estrema pulizia rende tutto un po’ troppo “seduto” e pop, pur non facendo venir meno la gradevolezza. Nel complesso Mike Finnigan sembra l’unico “indisciplinato” capace di inserire un pizzico di pepe in una serie di performance comunque ottime e super professionali, ma un po’ troppo controllate per il genere. Con I don’t do that no more torna il boogie a traino pianistico, ma la sensazione resta la stessa del pezzo precedente, forse ancor più amplificata dallo stile, solitamente più “selvaggio”. Nel complesso, questo potrebbe dipendere dall’intenzione di concentrare il focus sui testi, piuttosto che sulle esecuzioni, ma se anche così fosse la scelta apparirebbe incongrua con il genere musicale. Oh for the cry eye conferma che le canzoni vivaci ma non troppo rendono forse meglio, soffrendo meno del senso di straniamento derivante da un boogie educato e sedato. Tuttavia, anche qui la pulizia estrema della produzione non soddisfa appieno. La title track amplia il ventaglio di atmosfere rappresentate nel disco, virando a tratti sul notturno ma senza rinunciare a una certa pulsazione ritmica che dona una vivacità altrove mancante. «Non ho mai chiesto di essere qui, non ho avuto scelta, quindi cerco di restare fuori dai guai e vivo in questo tentativo di limitare i danni»  

Una curiosa musette zydeco tiene il ritmo per la briosa Truth be told che ricorda vagamente la Walk of life degli ultimi Dire Straits, con effetto vagamente circense specie nelle parti in cui l’hammond sul canale sinistro sgomita per un po’ più di spazio. Non può non notarsi comunque una certa incoerenza tra stile esecutivo e testo del ritornello laddove Salgado celebra «a love as good as gold, truth be told» emettendo quello che pare più un lamento che un urlo di gioia… In realtà l’intreccio di arrangiamento, stile esecutivo e testo lasciano supporre che l’ironia sia la vera chiave di lettura. The fix is in si apre con un piccolo sermone in cui il nostro ricorda agli amici musicofili che «quello è troppo bello per essere vero spesso non è bello… e neanche vero», invitando quindi sé stesso e tutti a stare all’erta perché «è arrivata la soluzione» (in italiano perdiamo un salace doppio senso, che lascio alla vostra personale traduzione) che evidentemente è spesso peggiore del male, spesso quando viene proposta da chi soffre evidenti conflitti d’interesse. Chiude il disco l’unica cover del disco, Slow down classico rock’n’roll scritto da Larry Williams nel 1958, reso famoso nel 1964 dai Beatles, quindi reincisa da un sacco di artisti diversi (tra cui possiamo ricordare Alvin Lee e addirittura Brian May!).

Nel complesso parliamo di un buon disco, non inferiore ad altre uscite di Salgado dal punto di vista dell’ispirazione e della qualità complessiva, ma a tratti appesantito (o forse sarebbe meglio dire “eccessivamente alleggerito” …) da una produzione troppo pulita, morbida e educata, mentre – a parere di chi scrive – la black music necessita sempre di quel margine di maleducazione e sporcizia (anche solo sonora, al limite, se non è disponibile quella esecutiva) per mantenere alta la febbre. In ogni caso… averne di dischi così! Quindi pollice in su, in attesa del prossimo disco, o – meglio ancora – di vedere Salgado dal vivo.

Track List

  • he Longer That I Live
  • What Did Me In Did Me well
  • You’re Going To Miss My Sorry Ass
  • Precious Time
  • Count Of Three
  • Always Say I Love You (At The End Of Your Goodbye)
  • Hail Mighty Caesar
  • I Don’t Do That No More
  • Oh For The Cry Eye
  • Damage Control
  • Truth Be Told
  • The Fix Is In
  • Slow Down

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