Andrea Tarquini In fondo al ` 900
2022 - MoovOn/Self
Le canzoni erano Ufo robot e In fondo al ‘ 900, dove la Storia intrecciava le storie, quelle piccole e personali, e le vicende che hanno segnato un secolo facevano da sfondo alla memoria autobiografica.
Pensavo a quanto sia inevitabile — ancora di più in un periodo di piaghe bibliche — pensare il passato come luogo felice e perduto, in contrasto con un presente infame che ha tradito le promesse. Dite che non è vero, giurate che non vi succede almeno una volta al giorno. Ma il fatto che l’idealizzazione sia una tentazione così irresistibile non è una prova della sua ragionevolezza: non è stato, in fondo, proprio quel passato a portare in pancia questo presente?
Se non si cede a quella tentazione, guardare al passato è un modo di parlare di sé, di dichiarare le proprie origini, senza infingimenti. Come dire: “Questa è la mia storia, questo sono io”.
Questa è l’ara che si respira nel terzo album di Andrea Tarquini, In fondo al ‘900. Musicalmente c’è tutta la storia del suo autore. C’è la produzione di Fabrizio “Cit” Chiapello e c’è l’impronta dei vecchi amici, come Paolo Giovenchi. C’è il folk americano, c’è la chitarra del titolare che suona come deve suonare, ci sono violini e mandolini a fare da costante rimando al suo mondo sonoro. C’è forse l’eco di una certa canzone d’autore soprattutto romana, c’è una relazione tra la voce e il pianoforte (nella canzone eponima dell’album) in cui qualcuno ha voluto vedere una parentela con De Gregori. In definitiva è un album dove il legame con ciò che è venuto prima è deliberatamente esposto e messo in evidenza: mi piace anzi vederlo come l’elemento portante di un cd che porta sulle spalle non solo nei testi, ma anche nei suoni e negli arrangiamenti, la responsabilità della storia che racconta.
Ma a proposito di De Gregori: se devo prenderlo come pietra di paragone mi salta all’occhio una differenza ancora più delle somiglianze — che siano cercate o inconsapevoli. Perché in fondo, qui come lì, si dice che la storia siamo noi. Ma se per De Gregori era un richiamo al fatto che la forza imperscrutabile della Storia passa attraverso l’opera delle persone — “perché è la gente che fa la storia” — qui è la consapevolezza che siamo fatti di storia. Siamo formati dall’epoca storica che ci ha fatto da sfondo, siamo fatti degli incontri con le persone che hanno incrociato i nostri passi, con quelle con cui abbiamo ballato un liscio, con quelle con cui abbiamo condiviso vento e mare mosso.
Credo che questa consapevolezza sia ciò che permette a questo album di guardare al passato senza idealizzazioni e al presente senza moralismi ma con l’intento di mettersi a nudo, di squadernare la propria storia (“nessun castigo, niente mezze verità”, dice un verso di Adiós Amigos). È per questo che non si scorge l’ombra del giudizio sulle creature allo sbando di L’amore in frigo o di Pioggia d’estate: c’è spazio anche per loro in questo racconto del presente, insieme alla tenerezza per la protagonista di Cassa (in) quattro — che resiste a un lavoro alienante cantando il suo blues — e alla bellezza cantata in Parakalò.
Fra le diverse tracce lasciatemi segnalare ancora Uve al sole, strumentale dedicato a un amico che non c’è più, in cui Tarquini accorda la chitarra in Nashville tuning per dialogare col sax di Luca Velotti. E poi Cantautori indipendenti, con la bellissima sorpresa della voce di Federico Sirianni che duetta con l’amico per raccontare gioie e dolori (tanti, i dolori) del mestiere che li accomuna (che combinazione: entrambi finiti in una cinquina finalista delle Targhe Tenco 2022, Andrea nella categoria "canzone singola”, col brano che dà il titolo al cd, e Sirianni con l’album dell’anno scorso).
In fondo all’album c’è Adiós amigos, che è un tocco di classe notevole. È il brano del congedo, e probabilmente lo sarà anche dei live. È un passaggio emozionante, un abbraccio energico e affettuoso, eppure senza gioia né festa: semmai con un senso di sospensione e di attesa. Forse perché è il primo momento in cui l’album si concede un cedimento alla nostalgia; o forse perché le storie smettiamo di raccontarle a un certo punto, ma in realtà non finiscono. E quello che c’è in fondo al presente, a mano a mano che lo conosciamo, non è per niente un bello spettacolo.