Ryan Bingham

live report

Ryan Bingham Rolling Stone (mi)

19/01/2008 di Christian Verzeletti

Concerto del 19/01/2008

#Ryan Bingham#Americana#Rock

RYAN BINGHAM

19 gennaio 2008 - Rolling Stone (MI) Grazie ai consensi unanimi raccolti con il suo "Mescalito" (2007, Lost Highway), Ryan Bingham è diventato in breve tempo uno dei musicisti più considerati nel giro del roots-rock americano. Merito suo, che di talento ne ha, ma merito anche di un lavoro di promozione che ha saputo cogliere un momento di stasi sul mercato, con ben pochi dischi sopra la media in uscita.
C'è quindi attesa attorno a questa data e numerosi sono gli appassionati giunti al Rolling Stone per verificare dal vivo le doti di un giovane per cui si sono scomodati in tanti, Joe Ely compreso.
La serata è aperta da Liam Gerner, australiano di personalità e di belle speranze: chitarra e voce, propone un set acustico convincente, in cui sfoggia un folk saldo, forte di un canto che regge il palco con autorità. Liam fa venire in mente Josh Ritter in una forma meno pop, ma altrettanto limpida: della bontà delle sue canzoni si accorge il pubblico, che lo sostiene apertamente con buone dosi di "clapping" e anche di "sing along", soprattutto quando le interpretazioni si fanno più coinvolgenti grazie al mandolino di Corby Schaub della band di Ryan Bingham. Dopo un mezz'ora entusiasmante, Gerner saluta promettendo di tornare presto in Italia e, visto quanto fatto nei limiti di un'apertura, questo è anche il nostro augurio.
Con il suo inseparabile cappello bianco, Ryan Bingham invece si dimostra subito più cowboy ed anche se il primo pezzo in scaletta è un'inedito eseguito da solo, chitarra-voce-armonica, si capisce subito che la sua sarà un'esibizione Americana, ambientata nettamente nel Sud degli States.
I Dead Horses infatti sono presentati come una band di "rollhouse music", come confermato subito dalle versioni accese di "Gipsy road" e "Hard times". In primo piano sono le due chitarre elettriche, slide e lap steel, su cui Bingham costruisce una scaletta in continuo crescendo, in cui non manca di proporre anche nuovi pezzi dando prova di una coscienza da performer adulto.
Le canzoni assumono una forza maggiore rispetto a quanto sentito su disco: "Ghost of travellin' Jones" viaggia ad un ritmo sudista stile Creedence, mentre l'inedita "Bluebird" ha un passo oscuro che sfocia in una versione di "For what it's worth" con un finale notevolmente aumentato.
Dopo un paio di numeri honky-tonk ad alta temperatura, è il turno dell'attesa "Boracho station": a sorpresa però l'introduzione per chitarra acustica e mandolino rende il pezzo una vera e propria suite da mexican border facendone l'highlight dell'intero concerto. E, per chiudere il set con un incremento di adrenalina, Ryan impugna l'elettrica e si lancia in una "Sunshine" colma di slide.
Richiamato a gran voce, offre "Ever wonder why" in solitudine e infine una versione infuocata di "Bread and water", in cui si esibisce di nuovo con la slide a ridosso delle prime file.
Questo ragazzo non sarà Steve Earle o Joe Ely, come qualcuno ha azzardato, ma ha tutte le possibilità per compiere un lungo viaggio che potrebbe davvero portarlo a ridosso dei grandi rocker del Texas.