live report
Anita Camarella E Davide Facchini Fidenza - Piazza Duomo
Concerto del 16/07/2022
Ci sono certamente delle ragioni, dicevo, e per quanto mi riguarda ne ho trovate almeno tre.
(Ph.Max Giuliani)
La prima è la più banale: Anita Camarella e Davide Facchini sono dei signori musicisti. Lei non solo ha nella voce lunghi studi di musica antica e un amore sconfinato per Joni Mitchell, ma ha anche notevoli capacità di performer. Non si limita a cantare le canzoni, le interpretacon una partecipazione di tutto il corpo. Lui ha nelle mani da fingerpicker la storia della chitarra e dei suoi stili. È una locomotiva che traina le canzoni sia quando suona con le dita che quando le accompagna con uno strumming che fa quello che va fatto e lo fa bene, senza aggiungere nulla che porti l’attenzione dello spettatore lontano del cuore del brano.
Hanno suonato un’ora e mezza di ballate irlandesi e statunitensi — con in mezzo un paio di brani scritti da Anita e arrangiati insieme, comunque in totale continuità stilistica con la scaletta — con una perizia rara. Tutti i brani sono arrangiati con un certo grado di libertà e senza eccessiva deferenza per i più sacri. Wayfaring Stranger, che è diventata una specie di obbligo per ogni scaletta, qui è distante da qualunque versione ascoltata prima, con il mandolino potentissimo che introduce la storia citando Kashmir dei Led Zeppelin.
La seconda ragione è che lo spettacolo è un orologio, funziona che è un piacere. La veste in cui li abbiamo visti ieri sera è solo una delle versioni in cui è possibile ascoltare Anita e Davide, in parte testimoniata dagli album “Acoustic” del 2015 e “Our House” del 2019 (l’altra veste è quella di interpreti del repertorio dello swing italiano degli anni ’30-’40 del secolo scorso). E sebbene questo spettacolo fosse stato preparato appena prima della pandemia, e dunque abbia avuto poche possibilità di essere messo su pista, il copione funziona bene e nello stesso tempo sembra avere il margine di flessibilità per adattarsi alla cornice nella quale va in scena. La cornice in questo caso era quella del Duomo romanico di San Donnino, luogo rappresentativo sul percorso della Via Francigena. E dentro quella cornice stava alla perfezione un repertorio di musica antica con le sue storie d’amore e — qualche volte — di morte, con i suoni momenti sacri e quelli profani.
Il clima era molto intimo, i brani si sono succeduti introdotti dalle spiegazioni di Anita, abbondanti ma mai cattedratiche né noiose, e tutto si è svolto senza cali di tensione e con continue sorprese. Intanto perché la spola tra le due sponde dell’Atlantico, quella irlandese e quella statunitense, imprime movimento e varietà al repertorio. Poi perché, una volta che la serata è partita con una Ready for the Time to Get Better — che, nel suo arrangiamento per chitarra e voce, sembra figlia diretta di Doc Watson — e ha affondato le mani nei momenti migliori di “Acoustic”, il pubblico si mette comodo per ascoltare una tranquilla serata di voce e chitarra, e un attimo dopo invece iniziano le sorprese. Per esempio, nel momento in cui Anita imbraccia l’autoharp e Davide mette da parte la Martin 000 per il mandolino (assetto che manterranno per buona parte della serata), il repertorio si amplia nello spazio e nel tempo.
(Ph.Isabel Facchini)
Ma soprattutto, ad Anita sono affidati i momenti della serata che spiazzano. Come quando accende la loop station e introduce uno dei suoi gioielli per sola voce, composto da due brani del ‘300 tra sacro e profano: À la Porte, una chanson à danser francese, e Stella Splendens, un canto dal Llibre Vermell, la raccolta di testi liturgici ad uso di chi si recava in pellegrinaggio al monastero di Montserrat. Con l’ausilio tecnologico Anita moltiplica la sua voce e fa il controcanto a sé stessa, mentre il pubblico comincia a capire che non potrà distrarsi un attimo (il looper tornerà più avanti con Blackbird di Paul McCartney, e lì più che ai folksinger pensi a Bobby McFerrin). O come quando scende dal sagrato e intona Bring Me a Little Water, Sylvie di Leadbelly, battendo il tempo con le mani e con i piedi. Altro momento che scuote il pubblico e lo costringe ad un’attenzione supplementare, per cogliere le sfumature della voce senza microfono.
Fra continui vertiginosi cambi di contesto e di ambientazione, la scaletta scorre fluida. La padronanza con cui conducono tutto quanto ci fa capire che Anita Camarella e Davide Facchini hanno davvero imparato dai grandi. E questo ci porta al terzo punto, che è il più importante: coi primi due si può fare un bello spettacolo, ma per la magia ci vuole il terzo.
Il terzo punto c’entra molto col fatto che Anita e Davide vivono una parte della loro vita di musicisti negli Stati Uniti, con base soprattutto a Nashville. Lì hanno una comunità di amici artisti con cui intrattengono uno scambio costante che nasce da affetti umani profondi. Lì hanno registrato “Our House” fra i loro amici. Da loro apprendono, con loro a propria volta condividono quello che portano in dote come musicisti italiani. È emozionante sentirli raccontare dell’amicizia con Thom Bresh o con Tommy Emmanuel. E quel forte senso di comunità, che coinvolge anche te, lo senti quando suonano la canzone che ha insegnato loro Gail Davies e che a lei è stata tramandata dalle generazioni precedenti. Lo senti quando chiamano sul palco la loro Isabel (13 anni), da sempre on the road con loro, a duettare con la mamma su I’ll Fly Away. Credo che da quel forte senso di connessione, del quale ti chiedono di far parte per una serata, nasca la magia che coinvolge il pubblico in un modo speciale e lo ipnotizza per tutto il tempo dello spettacolo — vabbè, fatta eccezione per la famigliola dalle suonerie iperattive seduta proprio dietro di me, ma anche alla magia mica si può chiedere troppo.