Eugenio Finardi

live report

Eugenio Finardi Milano / Teatro Dal Verme

04/11/2016 di Fabio Baietti

Concerto del 04/11/2016

#Eugenio Finardi#Italiana#Canzone d`autore Mark Harris Stefano Cerri Claudio Pascoli Pietro Fariselli Ares Tavolazzi

 Eugenio Finardi l'avevo incrociato nel 1980 in un improbabile playback televisivo. Cantava di trappole, nella domenicale Discoring, con Boncompagni dietro alla consolle, lo sguardo allucinato di chi sta perdendo la giusta direzione.

Nel 1983, quando lo incontrai una seconda volta, vestiva con calzoni bianchi e camicia azzurra, portava il capello biondo e possedeva uno sguardo rassicurante, un look in linea con la "Milano da bere" da li a poco imperante, dimentico delle cantine in cui, qualche anno prima, si parlava e cantava di rivoluzione. Il Giappone era la tazza scura, la mia la stanza più sicura, in cui mi rinchiudevo a canticchiare un ritornello contro la solitudine e a cercare Osaka sul mio voluminoso Atlante.

Ammetto che le affinità con Eugenio Finardi, per molto tempo, le ho sentite più forti nella vita reale, considerandolo più padre dell'amata Elettra che per la sua storia artistica.

Quale migliore occasione per compensare le mie ormai colmate lacune che ascoltare dal vivo quelle canzoni, perfetto esempio di un certo modo di fare musica. Arrabbiata e poetica, contro e solidale, rock senza compromessi e jazz sinuoso sbocciate tra un buon Sugo e un motore Diesel in anni in cui etichette come la Cramps favorivano la commistione di generi e talenti, in cui il leader si confondeva con la band, dove la rigidità dei ruoli sfumava nella jam libera da vincoli di classifica di vendite.

Un clima ricordato da un Finardi visibilmente emozionato in un Teatro Dal Verme colmo e straboccante di affetto verso un uomo che la saggezza la esprime nelle parole e nel suo barbuto look. Una festa per celebrare questi 40 anni trascorsi in fretta, in cui Non gettate alcun oggetto dai finestrini è un ordine che vale ancora oggi sulle carrozze dei treni, in una realtà in cui sogno ed utopia non trovano posto sui loro seggiolini.

Il toccante ricordo per chi come Stefano Cerri e Hugh Bullen suona il basso da lassù si traduce in una versione a cappella di Amazing Grace che imposta la serata sulle coordinate dell'emozione.

E' delizioso ascoltare i bozzetti che l'Artista disegna, schegge di ricordi personali che si mischiano alla Storia, sia presentando le singole canzoni che i tanti Amici presenti sul palco, celebrazione lontana anni luce dall'operazione nostalgia

Musicisti che rischiavano la pelle, sul serio. Come a Padova, quando non si sapeva se preferire le pallottole alle pietre, entrambe oggetti di una rabbia e di una violenza che segnava quel tempo color piombo

La cantina in cui si lascia per due ore un ragazzetto dodicenne al seguito della sorella, ragazza del chitarrista. E ritrovarselo due ore dopo, strimpellare la chitarra nemmeno fosse un novello Clapton. La prima session dell'ottimo Lucio Bardi.

Le velleità rivoluzionarie di un Vietnam liberato, con Giai Phong come simbolo e di Cuba che forse non è il paradiso. Sogni riposti  nei cassetti della memoria a cui si guarda sempre con benevolenza.

E quel ragazzo un po' pirla, come dal lui detto, che però aveva intuizioni poetico - musicali di spessore. Finardi si guarda indietro e rivede un giovane che oggi godrebbe della sua stima di persona pregna di maturità. Un giovane che poserebbe il vinile sul piatto, intento ad osservare i solchi scavati dai bassi più densi.

Il concerto intanto era già partito all'insegna di un rock tirato e suonato ad alto volume. La chitarra elettrica di Giovanni "Giuvazza" Maggiore, impegnata a dispensare intrecci sonori a volte un po’ sopra le righe, le tastiere di Paolo Gambino a riempire i (pochi) spazi lasciati dall'evoluire della sei corde. Se solo avessi, La C.I.A (con tanto di citazione per Assange, nel ribadire l'attualità del testo), la melodia di Oggi ho imparato a volare, una Saluteremo il Signor Padrone in salsa hard, Soldi, Sulla Strada e Voglio. Nessuna tregua, poche oasi acustiche, qui si fa sul serio. Per chi ha gusti catodici, a casa c'è sempre un telecomando ed un decoder.

Sul palco si sono già avvicendati, oltre al già citato Bardi, Lucio Fabbri ed il suo inseparabile violino, lo splendido basso di un Faso entusiasta ed entusiasmante, i fiati densi di pathos e classe di Claudio Pascoli, la batteria del redivivo Walter Calloni detta i ritmi, coniugando potenza e precisione, le tastiere di un carichissimo Mark Harris e di un defilato Vittorio Cosma si distinguono pur nell'impasto sonoro che, a tratti, risente della difficoltà di mettere insieme così tanti strumenti.

Ma è con l'ingresso in scena di Pietro Fariselli, Ares Tavolazzi e dello spirito libero di Demetrio Stratos che la serata si impenna verso vette molto alte. Rock? Jazz? Progressive? Direi Musica, quella di qualità superiore, senza possibilità di etichette Con le evoluzioni sui tasti e la precisione dei giri di basso degli ex Area, Eugenio lascia il segno in splendide rivisitazioni di Diesel e Scuola, lasciando loro il palco per una strumentale Quasar, da qualcuno incredibilmente snobbata per fare rifornimento d'acqua al bar.

Non diventare grande mai e Non è nel cuore, Scimmia e La Radio. Scorrono i brani e ti accorgi come una serata come questa sia un tributo più che meritato per chi le ha composte. Ed il relegare la presenza di un personaggio "ingombrante" come Elio ad una sorprendente comparsata al flauto traverso in una facilmente dimenticabile Taking it easy, a mio parere, è stata una scelta vincente.

Il Re Nudo, il Parco Lambro, quei momenti in cui parole come impegno, solidarietà, rivoluzione non erano state cancellate dallo Zingarelli. L'esecuzione di Zerbo è servita per ricordarlo e per ridare alle stesse l'orgogliosa dignità che si meritano.

La Musica Ribelle si palesa alla fine, quasi come fosse il festeggiato che soffia sulle candeline della torta. Il messaggio è ancora forte e chiaro, mollare le menate e mettersi a lottare. Vecchi anatemi in cui si è creduto ma cristallizzati nell'illusione o slogan ancora trendy in un'epoca sbandata? Lasciamo che il dubbio per stasera rimanga sospeso in mezzo alle voci del pubblico che la canta a squarciagola.

Extraterrestre, tutti sul palco, standing ovation, foto e strette di mano. Si conclude con un trionfo un' operazione che, con un sagace uso dei social networks, l'azzeccata scelta (non solo artistica) degli ospiti e la parallela uscita dei supporti fonografici debitamente rimessi a lucido, ha comunque rimesso Eugenio Finardi nel posto che gli compete artisticamente nel panorama musicale italiano.

Foto di: Marcello Matranga