Simona Orlando

Simona Orlando L’urlo dei rolling stones


2004, ELLEU MULTIMEDIA

di Christian Verzeletti
Una collana intitolata “Racconti di canzoni” non può prescindere da “(I can’t get no) Satisfaction” dei Rolling Stones. A raccontare quei pochi minuti, tra i più noti della storia del rock, è Simona Orlando, che, in una settantina di pagine, delinea la storia non solo del singolo rock per eccelenza, ma anche dei suoi autori e della loro epoca. “Satisfaction” ne esce integra, per quello che veramente era, prima di diventare un hit da rock compilation, prima di sostenere spot miliardari e di essere tramutata dagli stessi Rolling Stones in un inno da stadio.
Quello che viene sottolineato è il potere eversivo del pezzo, ormai sbiadito nelle esecuzioni live di Jagger e compagni, buoni intrattenitori, ma lontani dall’essere rock e ancor di più blues.
La Orlando dedica solo qualche accenno al leggendario concepimento di “Satisfaction”, che la vuole apparsa in sogno a Keith Richards e poi cantata per la prima volta da Mick Jagger sul bordo di una piscina, quasi a segnare il luogo della morte di Brian Jones: credito e spazio vengono dati alla ricostruzione dell’ambiente, quello della Londra anni ’60, (precisamente nel 1965, la cosiddetta Swingin’ London) turbata da una canzone e da tutto ciò che le stava attorno.
Sviluppata sulla cultura blues dei Rolling Stones, che in quei primi anni di carriera proponevano per lo più cover di Muddy Waters e altri bluesmen, “Satisfaction” sintetizzava un disagio e un’insoddisfazione giovanile, molto più di quanto fosse nelle intenzioni dei loro autori.
A intuirlo fu Andrew Log Oldham, figura essenziale nella definizione e nella gestione della personalità ribelle e sporca della band, tra le più trasgressive dell’epoca. Come è universalmente riconosciuto, Oldham ebbe il merito di innescare una campagna pubblicitaria (la presunta rivalità coi Beatles, la famosa frase “Lascereste uscire vostra figlia con un Rolling Stone?”), ma anche una presa di coscienza nei musicisti di quella che era la via da seguire: se Jagger e soci erano partiti dalle crossroads del blues americano, “Satisfaction” era il segnale di una strada tutta loro.
Il brano fu garanzia di successo, ma anche di uno stile, basato su un riff appena distorto e su un testo provocatorio, se non ambiguo: non a caso finchè gli Stones riuscirono a mantenersi entro queste coordinate, la loro carriera e la loro qualità non venne sbalzata nemmeno dalla tragedia di Altamont e dalla scomparsa di Brian Jones. Nell’ultimo capitolo la Orlando riassume l’eredità lasciata da “Satisfaction”: meglio sarebbe stato riflettere sulla paternità avuta su molto rock, piuttosto che compiere un excursus (impreciso) delle interpretazioni che altri artisti ne hanno dato. Ma purtroppo persino questa progressiva depurazione è ormai parte di “Satisfaction”, canzone che può essere presa a simbolo della commercializzazione a cui tutto il rock è stato sottoposto.

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