Will Hermes Lou Reed - Il re di New York
Minimum Fax, 2023, Traduzione: Chiara Veltri , Paola De Angelis, 771 pagine, 28 euro Musica | Biografie
14/01/2024 di Franco Bergoglio
Sapevate che Lou Reed, negli anni formativi, aveva visto il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot Café nel 1959? Oppure che nel programma tenuto alla radio del college Excursions on a Wobbly Rail (dal titolo di un pezzo di Cecil Taylor), metteva brani del primo free jazz e aveva fondato una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto? Sapevate che nei primi anni di carriera Reed si era prodotto in diverse cover di Bob Dylan?
Sono informazioni che si trovano nelle prime pagine di Lou Reed Il re di New York, dettagliatissima biografia scritta da Will Hermes (autore per Pitchfork, Rolling Stone, New York Times). Un lavoro monstre, che sfiora le 800 pagine e racconta per filo e per segno ogni momento della vita e della carriera di Lou Reed.
Veniamo così a sapere che il primo singolo che acquistò fu The Fat Man di Fats Domino e che il suo interesse andò subito verso il blues e la musica nera in genere, compreso il doo-wop. Molto presto arrivarono il free jazz e gli ascolti eccentrici, come la passione per Moondog. Lavorando come deejay per le radio studentesche, la miscela di jazz d’avanguardia, rock’n’roll e musica nera che proponeva (e faceva a volte saltare sulla sedia gli insegnanti delle scuole) ci racconta le radici musicali di Reed (a cui bisogna aggiungere la fascinazione, mai sopita del tutto, per la letteratura).
Proveniente da una famiglia ebrea dei sobborghi, quando approdò a New York Lou Reed entrò subito in contatto con il frizzante mondo culturale della Grande Mela, esplorandone i vari spicchi: letteratura (Delmore Schwartz) musica sperimentale (La Monte Young) cinema (John Mekas), teatro, happening performativi e arte (ovviamente con Andy Warhol).
La Factory di Warhol e i suoi personaggi occupano una porzione importante del libro: ne viene fuori un quadro del periodo colorito e ricco di spunti, anche extra musicali.
Il libro si sofferma sulla genesi dei Velvet Underground, sull’apporto dei singoli componenti (Moe Tucker, Sterling Morrison, John Cale) e del produttore Tom Wilson. Ci sono dettagli gustosi, come la stroncatura dei concerti californiani del gruppo nell’Exploding Plastic Inevitable Show allestito da Warhol, scritta all’epoca dall’autorevole critico jazz/rock Ralph Gleason che trovò i Velvet «noiosi, esagerati, malati del Greenwich Village». Diversa la ricezione newyorkese, dove il critico Richard Goldstein descrive la musica del gruppo come « un matrimonio tra Bob Dylan e il Marchese de Sade».
Nello stesso campo ecco comparire Lester Bangs, uno dei primi estimatori dei Velvet, con un pezzo da un Rolling Stone epoca ‘69: «Come definireste un gruppo come questo, che è passato da Heroin a Jesus in appena due anni? È davvero lo stesso gruppo di drogati, checche, sadomasochisti, strafatti di speed che urlavano la loro rabbia e il loro dolore con un feedback devastante sputando parole come una serie di epiteti? Sì. Sì, sono proprio loro, e questa è forse la lezione più importante dei Velvet Underground: il potere dell’animo umano di trascendere i suoi stati più cupi».
A prescindere dalla valutazione di Lester Bangs, il libro propone questo genere di chicche imperdibili, frutto di una ricerca attenta nelle fonti d’epoca, sostanzialmente inedite.
La carriera solista è descritta in maniera altrettanto definita. Il suo brano forse più famoso di sempre - e comunque quello che lo ha lanciato definitivamente in orbita - partiva con un bel plagio dal romanziere Nelson Algren A Walk on the Wild Side - Passeggiata selvaggia (1956). Will Hermes individua anche un’altra ispirazione oltre al titolo: «Il motore di Walk on the Wild Side è una delicata e costante plettrata di chitarra funk sul modello di I’ll Take You There degli Staple Singers, un successo radiofonico di quell’inverno».
La traccia è flebile, ma getta una luce nuova su un brano del quale è stato detto di tutto e che è diventato un simbolo dell’estetica queer, dietro il quale a questo punto vediamo anche altre ispirazioni, altri “furti”.
In un concerto al Bottom Line (1993) con David Byrne, Rosanne Cash, Luka Bloom, Lou pronuncia il famoso detto (che non è apocrifo, come qualcuno pensa, si può sentire nel parlato della registrazione del live presente su you tube prima di Heroin): «Mi piace questa canzone, ha soltanto due accordi. Si dovrebbe essere in grado di scrivere un’ottima canzone con un solo accordo. Due sono davvero troppi. Con tre, è jazz». Delizioso, se si considera che lo afferma chi ha scritto Beginning of a Great adventure…
Il titolo è in qualche modo l’assunto principale del libro. Lou Reed è stato l’orecchio di New York come Woody Allen l’occhio. È il re. Qui si tengono i concerti principali della sua carriera, qui avvengono le principali svolte creative e da ultimo l’incontro con Laurie Anderson, propiziato da John Zorn. Il sodalizio tra i due sarà totale negli ultimi anni e Anderson porterà nuove energie all’ormai malato, ma indomito, sperimentatore.
Il libro elenca concerti e dischi, ma, come per il resto, coglie anche dettagli minuziosi. Un esempio? I due propongono un concerto a basse frequenze per i cani (un’idea che pochissimi altri creativi hanno sviluppato: in Italia il compositore-trombettista Ramon Moro per il festival Chamoisic, diretto da un iper-creativo come Giorgio Li Calzi). Nel 2002 in The Raven avviene l’incontro con il vecchio idolo degli inizi Ornette Coleman, a fine carriera quello con i Metallica (2011). Esperimenti a volte non pienamente riusciti, ma chi ha fatto di più in termini di apertura tra i generi (non solo musicali)?
In chiusura, torniamo ancora per un attimo al titolo: Il re di New York. Chi ha dedicato alla città un disco più capolavoro di New York? Partita chiusa!