Vanna Mazzei, Roberto Bonfanti

Vanna Mazzei, Roberto Bonfanti La prima ultima volta (una vita al rovescio)


Edizioni del Faro, 2023, 103 pagine, 12,50 euro Narrativa | Narrativa Italiana | dialogo teatrale

22/07/2023 di Ambrosia J. S. Imbornone
Avete presente Il curioso caso di Benjamin Button, racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922 e poi pellicola diretta da David Fincher nel 2008? In questo romanzo di Vanna MazzeiRoberto Bonfanti, La prima ultima volta (una vita al rovescio), invece, il protagonista, Il vecchio, ovvero l’anziano professore universitario Marco Frigerio, ormai sul punto di morire, si ispira a un racconto simile e precedente (1911), Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino, novella di Giulio Gianelli, per ripercorrere tutta la sua vita all’indietro e al rovescio, soffermandosi sulle sue “ultime volte”.

Solo alla fine del suo racconto si concentrerà su “l’unica prima volta che può esistere nella vita di un essere umano”, la nascita, per poi lasciare questa vita, in una circolarità che fa coincidere inizio e fine, alfa e omega. Secondo il personaggio, d’altronde, gli altri eventi della vita non sono prime volte, ma “momenti finiti, cose cambiate, chiusure di sentieri sbagliati che conducono nel buio della foresta del dolore o percorsi di strade giusti stroncati dall’inconsapevolezza della possibile serenità”.

A proposito di foreste, più avanti racconterà non a caso di essere stato affascinato da bambino da un’edizione illustrata della Commedia dantesca e dalla selva oscura, “bosco immenso” che sembra sottolineare tutta la “fragilità e incertezza” del viandante, “piccolo, curvo e spaurito”.

Il romanzo ha la forma di un dialogo teatrale in tre atti, in cui però i personaggi Lo spettatore e La spettatrice interagiscono con il protagonista, osservandolo “come se fossimo a teatro”; questo elemento aggiunge un elemento metateatrale, con i riferimenti alla “scomoda seggiolina ricoperta di velluto rosso” e ovviamente con l’abbattimento della quarta parete.

Così Il vecchio, nelle quindici scene del volumetto, ripensa alla sua vita, riassaporando ancora una volta i suoi ricordi e mescolando “le gioie con i rimpianti”, attraverso le tappe più importanti di tre fasi diverse, corrispondenti ad altrettanti atti, che lo vedono “vecchio”, “uomo” e “fanciullo”. Il precedente riferimento a Dante non era casuale: sembrerebbe infatti che ci siano qui e lì nel dialogo debiti/omaggi abbastanza evidenti a grandi scrittori italiani, complice forse anche la formazione di Vanna Mazzei, un'ex insegnante di italiano e storia, che coniuga la sua esperienza e la sua età con quelle differenti dello scrittore Roberto Bonfanti, da sempre attivo anche con molteplici ruoli nel mondo della musica indipendente (ricordiamo il progetto musicale Ogni sorso un ricordo con Miky Marrocco, ma anche l’esperienza dell’etichetta Ilrenonsidiverte, fondata con Alessandro “Alez” Giovanniello, che pubblicò ad esempio un album dei Dilaila e tenne a battesimo Giuliano Dottori e Anonimo FTP).

Le tante “ultime sigarette” narrate dal professor Frigerio non possono non far pensare allora a quelle dello Zeno Cosini di Svevo, anche se in questo caso il protagonista non tende a giustificarsi e a crearsi alibi della propria inettitudine (“che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo?”, si leggeva nel capolavoro La coscienza di Zeno), quanto piuttosto offre l’occasione di riflettere su come nessun uomo possa mai “conoscere fino in fondo” “la profondità delle proprie debolezze”.

La commovente descrizione della figlia nata morta, con “una minuscola mano semichiusa” che pendeva “abbandonata”, non può non sembrare invece memore della toccante e malinconicamente celeberrima Cecilia manzoniana, morta a causa dell’epidemia di peste, e della sua “manina bianca a guisa di cera” che “spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza”. È probabilmente il momento più emozionante del libro; d’altronde, la spettatrice ritiene che quando il vecchio affronta l’argomento dell’attesa della paternità, per la prima volta non parli della sua vita come se non gli appartenesse.

Il volume, snello e scorrevole, complice appunto anche la struttura del dialogo, consente così di concentrarsi su tanti temi presenti in “una vita come tante”, espressione ripetuta dai due spettatori alla fine del libro: si parla della “sentenza” della sua malattia, dell’ultima lezione da professore di biologia, di quando ha salutato, andando a letto con una studentessa molto giovane, “l’ultimo baluardo di rigore morale”, che non rappresentava tanto i suoi principi, quanto un’immagine di sé stesso come irreprensibile a cui teneva narcisisticamente, oppure ancora si ricorda il “tempo delle scelte”, con il matrimonio che sembrava a Frigerio “la cosa giusta da fare”: secondo il protagonista infatti le vere e proprie scelte dell’esistenza sono tre o quattro, mentre il resto è solo una conseguenza, o è condizionato da mille fattori esterni.

Possiamo ritenere che il dialogo narri la storia di un personaggio, e di tanti altri, tanto che anche la spettatrice, inizialmente molto critica con il vecchio, non può fare a meno di riconoscersi nelle sue fragilità, come se le avesse percepite anche lei in un passato che non riesce a ricordare bene.

Sono le nostre fragilità, su cui questo libretto ci fa riflettere con un taglio che mescola narrativo e filosofico, come ad esempio nei pensieri quasi “leopardiani” sull’accumulare desideri su desideri e non sentirsi mai veramente appagati, sul volere sempre di più, che appare stimolo indispensabile per l’evoluzione dell’umanità, ma anche chiave dell’impossibilità di raggiungere davvero la felicità, o il piacere in sé, come riteneva il “giovane favoloso”,  o l’ “edonista infelice”, come lo chiamava Calvino; Leopardi osservava infatti, com’è noto, che, poiché l’uomo ambisce a un piacere eterno e immenso, che non può raggiungere, “tutti i piaceri” debbano “esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente ciò che non può trovare”, cioè una “infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato”.
Come già ricordato, il romanzo inevitabilmente si chiude con “la meraviglia e affascinante della nascita”, che coincide anche con la morte del protagonista.

Il volume, insomma, si sofferma a ritroso su momenti importanti come se effettivamente la morte – come riteneva Pasolini – compisse in qualche modo “un fulmineo montaggio” della propria esistenza; questa lettura ci spinge in tal modo a concentrarci e a pensare ad esempio a cosa scegliamo davvero, ai punti di svolta nel percorso dell’esistenza, come il divorzio, o il momento in cui il protagonista, da essere un bambino spensierato che si sentiva protetto dal papà e si sentiva invincibile, ha scoperto e compreso “il peso della vita”.

Così, si può affermare che questa scrittura semplice e mai banale, agile e fluida, che trascina nelle sue riflessioni impalpabili (per quanto materiate anche di riferimenti a oggetti e ambienti più che concreti e tangibili), si accosti a suo modo a quella “letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”, di cui parlava Calvino in una delle sue Lezioni americane.