Truman Capote

Truman Capote A sangue freddo


Milano, Garzanti 2005 - Pagine 391, € 14.00 Narrativa Straniera

di Luca Meneghel
Il recente (magnifico) film di Bennett Miller “Truman Capote: A Sangue Freddo”, vincitore di un premio Oscar agli ultimi Academy Awards per il miglior attore protagonista (l’altrettanto magnifico Philip Seymour Hoffman), mi permette di parlare di quel capolavoro letterario che è lo stesso “A sangue freddo”, pubblicato in quattro puntate sul “New Yorker” nel 1965 e successivamente in un volume, supportato da un successo strepitoso (dopo la pubblicazione della prima puntata, 25 settembre, si scatena una caccia alla rivista senza precedenti: l’attesa da parte dei lettori è semplicemente febbrile e pochi sembrano saper attendere la settimana successiva).
Per parlare di quella che è considerata l’opera fondatrice della non fiction novel, genere a metà tra letteratura e giornalismo ricercato da Capote in tutta la sua carriera fino alla perfezione di “A sangue freddo”, è necessario un breve excursus nel dipanarsi degli eventi che hanno portato alla stesura del libro (eventi narrati magistralmente nel film di Miller). Tutto incomincia la mattina del 16 novembre 1959: il “New York Times” pubblica la notizia della barbara uccisione della famiglia Clutter (padre, madre e due figli) a Holcomb, piccola cittadina agricola del Kansas, e Capote capisce di aver finalmente trovato il casus belli che lo porterà a fondare un innovativo genere letterario. Accompagnato da un’amica d’infanzia (per la cronaca Nelle Harper Lee, autrice de “Il buio oltre la siepe”) Capote parte per Holcomb dove assisterà alle prime indagini, alla cattura dei due responsabili, al processo e alla seguente condanna a morte; negli anni seguenti mantiene una fitta corrispondenza con i due assassini reclusi in carcere, in particolare con Perry Smith (al quale si affeziona pericolosamente, tanto che l’amica Harper Lee teme che stia per innamorarsene), fino al 1965 quando assisterà all’esecuzione dei due e porterà a termine l’ultima parte del suo folgorante romanzo.
Lungi da me formulare giudizi di valore su un’opera unanimemente riconosciuta come straordinaria, vorrei però soffermarmi su alcuni aspetti che rendono “A sangue freddo” non solo straordinario ma anche unico.
Cos’è “A sangue freddo”? Un romanzo? Un reportage da un paesino del Texas? Un po’ di entrambi: è, come dicevo, una non fiction novel, in altri termini un romanzo basato sul racconto fedele di fatti e personaggi realmente avvenuti ed esistiti. L’origine, del resto, è anche storicamente giornalistica: Capote parte come inviato del “New Yorker” e l’idea è quella di scrivere un pezzo giornalistico, anche se poi il dipanarsi delle indagini, la cattura dei responsabili e il sempre maggior coinvolgimento dell’autore lo portano a scegliere la pubblicazione in quattro puntate e successivamente in volume come un vero e proprio romanzo. L’effetto sortito dallo scontro della cronaca nera con i metodi romanzeschi dell’intreccio e della ricostruzione psicologica è assolutamente inedito e meraviglioso: “A sangue freddo” colpisce direttamente come un pezzo di cronaca, riportando scrupolosamente tutti gli eventi, ma dà alla narrazione quell’incastro assolutamente perfetto (pensiamo ai continui cambi di scena da Holcomb, dove avviene il delitto e si svolgono le indagini, alle tappe dei due fuggiaschi in fuga per gli Stati Uniti e il Messico) proprio delle migliori forme romanzesche.
Non basta un nuovo genere letterario a fare di un libro un capolavoro: dietro, non dimentichiamolo mai, ci sta la genialità del suo autore. È Truman Capote, al tempo sulla scia del successo con “Colazione da Tiffany”, ad intervistare gli abitanti di Holcomb, a farsi accettare come un vero e proprio eroe, a stabilire un rapporto strettissimo con i prigionieri analizzandoli senza pregiudizi (anzi, con un particolare affetto per Perry che cela comunque al momento della scrittura). Terminata la lettura delle vicende dell’uccisione dei Clutter nella loro casa di campagna, quello che sconvolge il lettore è la capacità che Capote ha avuto di farci quasi affezionare a dei brutali assassini: la lucidità scevra da ogni preconcetto con cui li analizza li pone sullo stesso piano delle vittime, senza alcuna nota personale di demerito se non quelle di alcuni personaggi che prendono parte alle vicende del libro; in questo livellamento verso l’oggettività della voce narrante sta il perfetto funzionamento e successo della non fiction novel.
In chiusura vorrei riprendere l’intuizione di Emmanuel Carrère in un articolo scritto per “Télérama” (e pubblicato in Italia da “Internazionale” n. 637): lo scrittore fa notare come nell’assoluta oggettività del romanzo di Capote manchi in realtà, e necessariamente proprio per mantenere quell’indispensabile oggettività, lo stesso Capote tra i personaggi, ricordando che proprio lui è stata la persona più vicina ai due assassini in tutti gli anni della prigionia. Credo che Carrère abbia posto una questione fondamentale: perfino la non fiction novel, per essere oggettiva, deve tralasciare qualcosa, qualcosa nel nostro caso di assolutamente importante, andando così ad intaccare l’oggettività stessa (che si configura allora come un qualcosa di inafferrabile interamente tanto nella letteratura quanto nel giornalismo).
Terminato “A sangue freddo” Capote non porterà più a termine alcun romanzo: l’esperienza lo segnò profondamente e chi lo sa come deve essersi sentito nel vedere il suo Perry Smith attaccato alla corda. Quello che è certo è che la testimonianza lasciataci è un’opera fondamentale tanto per il giornalismo quanto per la letteratura, senza contare i campi della psicologia criminale e dell’etica connessa alla pena di morte.