Scott Ellsworth Morte nella terra promessa
Mimesis, 2022, Prefazione di John Hope Franklin, Collana Le carte della memoria, 198 pp.,€ 18,00 Saggi | Società
04/10/2022 di Franco Bergoglio
Tulsa è la seconda città dell’Oklahoma per numero di abitanti e -grazie al petrolio- per importanza economica. L’Oklahoma può evocare nel nostro immaginario le torri dei pozzi e le campagne polverose abitate da rozzi sudisti, chiamati spregiativamente Okies. Un immaginario che deriva da una delle prime grandi tragedie ecologiche del secolo, la famosa Dust Bowl degli anni Trenta, quella crisi creata da uno sfruttamento agricolo intensivo che aveva desertificato il territorio generando immense tempeste di sabbia. Questo disastro finì per rovinare le coltivazioni e mandare in rovina milioni di contadini. Un dramma collettivo di dimensioni epiche immortalato dalle fotografie di Art Rothstein e Dorothea Lange, dalle canzoni di Woody Guthrie, dalla feroce penna di John Steinbeck nel romanzo Furore. Purtroppo l’Oklahoma è testimone di altre tragiche vicende. In questo stato il Ku Klux Klan ha avuto un forte radicamento per molti decenni e la pratica del linciaggio è stata a lungo presente.
Morte nella terra promessa di Scott Ellsworth racconta uno dei linciaggi di massa peggiori della storia americana, avvenuto proprio a Tulsa. Nel 1921, lo stesso anno del massacro di Tulsa, negli Stati del Sud si svolsero 64 linciaggi e di questi 59 riguardarono neri. Furono uccisioni violentissime, condite di torture indicibili e ben 4 malcapitati vennero arsi vivi. Come le streghe di Salem, verrebbe da dire, solo in questi casi siamo ben dentro il Novecento. Ellsworth descrive con asciuttezza il contesto generale americano che porta a questo misfatto e lo cala nella contingente realtà di questo stato giovane che, ancora lontano dai disastri naturali degli anni Trenta, è una sorta di “Terra promessa” grazie al boom dell’estrazione del petrolio. L’avvicinamento al tema passa anche per l’analisi di un contesto violento non solo contro i neri, ma in generale contro ogni genere di rivendicazione sociale. Un trattamento simile a quello riservato ai neri spesso toccava agli attivisti sindacali o ai semplici iscritti che osavano rivendicare i propri diritti. La cura, lo scrivevano addirittura i quotidiani, non era neanche l’espulsione o la prigione, ma direttamente “farli fuori”, senza sprecare tempo e soldi. In un clima del genere la prospera comunità nera di Tulsa, ricca di fiorenti attività commerciali, con scuole e ben due quotidiani, era un obiettivo della parte bianca e povera di Tulsa. Lo scontro tra i neri tornati dalla guerra che, dopo aver combattuto per il proprio Paese, erano in grado di difendere la propria esistenza anche con le armi, provocò il Tulsa Race Riot del 1921, un vero e proprio pogrom, dove in sedici ore di disordini furono uccisi tra i 75 e i 300 neri e il quartiere nero di Greenwood venne praticamente raso al suolo.
Il libro è equilibrato ed evita di calcare la mano su una vicenda i cui toni drammatici sono evidenti. Il volume è corredato da una corposa documentazione fotografica. Sfogliando le immagini sembra di assistere a una violenza di tipo squadrista: tutto quanto viene dato a fuoco, chiese comprese. È una storia talmente incredibile che il solo raccontarla fa inorridire. Il semplice gesto di sollevare il velo su questa tragedia cambia la percezione di Tulsa e cancella dalla memoria popolare il buon vecchio Sud, quello che risuona nella sdolcinata canzoncina Take me back to Tulsa (1941) di Bob Willis, storico esempio di western swing, ancora oggi uno dei brani più famosi di quel genere musicale. Il brano racconta una Tulsa diversa, un Paradiso terrestre che non ne vuole sapere di ammettere la verità e rivelarsi come un inferno per chi ha il colore della pelle diverso o chiede di poter godere dei diritti sociali.