Massimo Bontempelli L`amante fedele
Utopia Editore, 2023. 288 pagine, euro 18 Classici | Racconti
04/03/2024 di Luca Di Pinto
Grande amico, fra gli altri, di Giorgio De Chirico, Bontempelli si distinse altresì come promotore del “Novecentismo”, non tanto nella riscoperta del metafisico (ossia l’”inanimata e queta bellezza della materia”, per dirla con De Chirico stesso), quanto in una sorta di restaurazione neoclassica, votata alla contaminazione oltre confine.
In queste pagine, oltretutto, l’autore preserva stilemi fiabeschi e fantastici, aprendo in seguito i sentieri al Neorealismo del secondo dopoguerra tanto cari a Italo Calvino, e in particolare alla visione esistenzialista delle celebri favole di quest’ultimo, svincolate da intellettualismo e moralismo. E, perché no, aprendo anche ai labirinti onirici, poi scandagliati da Queneau.
Nel breve romanzo L’acqua, ad esempio, il mondo fatato di una ragazzina è improvvisamente travolto da un destino di terreni tormenti, dai quali in qualche modo la stessa riesce ad affrancarsi, prima di tornare alla fonte battesimale dei suoi principî, sparigliando le carte (in tutti i sensi) sul tavolo di convenevoli carichi di ipocrisia (“Il bello si è che le cose che dico e vi mettono in quello stato, io mentre le dico non le capisco neppure (…). Non ho fatto che ripeterle come le raccontate voi”).
Ci sono anche il nonsense e l’assurdo, che sfiora appena quello tout court adottato da Giorgio Manganelli in Centuria, ma di certo un delirio costante, il conscio in lotta col subconscio, l’amorevole follia di una figlia con cui presto una madre dovrà fare drammaticamente i conti (“La pianura si sposta, occorrerà un rovescio”, così fra le prime righe di Imperatrice).
Tenebre e sonno dominano l’opera. Terreno e ultraterreno ordiscono le oscure trame di Nitta e Convegno, in cui i protagonisti colmano vuoti esistenziali con visioni a metà strada fra la realtà e la farneticazione pura. Finanche aprendo al senso di autoredenzione de Il ladro Luca, filo conduttore con La violetta, racconto, quest’ultimo, in cui il perentorio mezzo di un amore epistolare, lanterna a far luce nell’intricata via della sopravvivenza interiore, addomestica un’angoscia a mezz’aria tra sogno e realtà (“Alla coscienza severa si mescolava ora una nuova compassione di lei verso se stessa”).
Perenne è il senso di liberazione dal cono d’ombra che incatena agli abissi della coscienza, di volta in volta rappresentato da espedienti surreali e inopinati, estrosamente descritti, a un certo punto, anche in Pietro e Domenico, l’illuminazione del padrone che libera il servo (al picco di una difficoltà tempestosa) da quell’insulso stato di estrema accondiscendenza.
Il fiume in piena allestito sul letto di morte di Ottuagenaria espone a un punto di diversione inedita abilitata alla scissione fra il magico e il realismo, picco narrativo di superba maestria in cui la protagonista riunisce la famiglia raggelandola al cospetto di un testamento carico di indignazione (tinto anche di un inatteso giallo). La disquisizione, furente ed esondante, disvela l’esistenza di un’anziana donna soffocata da oppressioni e incatenata all’inerzia (“il pozzo”) del conformismo quotidiano, a cui solo una lucida follia e una pirotecnica fantasia votata al nichilismo ne avrebbero smorzato il pericoloso impeto (tratto caustico e tagliente, che avrebbe poi distinto l’acutezza dei monologhi e delle invettive di Thomas Bernhard).
Cosa racconta il peregrinare (in sogno?) di queste pagine? Forse, al pari de I pellegrini, un desiderio di evasione, dapprima fortemente bramato, poi, in un clima sempre più ostile, l’incubo dal quale fuggire a gambe levate (“Martino, ho veduto cose terribili” – “Le cose terribili sono i nostri pensieri”), e nel quale a volte sprofondiamo spinti da curiosità. “Cessata quella, andiamo avanti perché non troviamo una ragione di tornare indietro o fermarci: allora al nostro andare ognuno in cuor suo può dare il nome di fatalità. E non sapremo mai se il nostro cammino sia pellegrinaggio o vagabondaggio”.