Luciano Federighi

Luciano Federighi Confessin ` the Blues


Mimesis / musica contemporanea, 2022, 376 pp., 25 euro Musica | Saggi

20/04/2022 di Franco Bergoglio

Il libro di Luciano Federighi, Confessin’ the Blues, farà sicuramente felici gli appassionati della musica nera. La lunga esperienza di giornalista, collaboratore della rivista Musica Jazz fin dagli anni Settanta, saggista e cantante di blues, rende Luciano Federighi uno dei massimi esperti in circolazione nel campo voci “nere”.

Senza fare distinzioni troppo puzza-sotto-il-naso tra blues, soul, r & b e jazz, il libro copre un vasto tratto di musica vocale afroamericana degli ultimi trenta, quarant’anni, affrontando personaggi che raramente si trovano nelle storie del
jazz canoniche, quelle che sorvegliano strettamente i recinti dell’arte per non lasciare entrare cose dubbie e così facendo escludono un notevole quantitativo di bella musica. Il primo personaggio della galleria è già tutto un programma: Johnny Otis, un bianco di origini greche che ha sempre voluto vivere da nero e ha prodotto per decenni musica nella comunità afroamericana californiana, lavorando molto in sala d’incisione e fungendo da talent scout per Esther Phillips, Etta James, Big Mama Thornton. Le prime due sono anche oggetto di singoli approfonditi capitoli. Come non approfittare per rispolverare qualche disco con la seducente, pigra interpretazione di Esther? Si ascolta e magari si accompagna qualche verace interpretazione r & b, leggendo insieme dal libro qualche aneddoto, come quello che vede la non troppo timida Esther minacciare i dipendenti dell’etichetta CTI con una mazza da baseball per farsi pagare il dovuto…

Le pagine del libro sono una vera miniera di possibili ascolti e di riscoperte: è il caso di personaggi come Roy Brown: passato dal pugilato professionistico al canto, il nostro ebbe hit alla fine degli anni Quaranta con una “vocalità profana” che entrò di diritto nel bagaglio di Elvis, ma oggi pochi lo ricordano,anche se la sua musica è una fonte zampillante di blues sudista.
È poi la volta di un certo numero di voci maschili inspiegabilmente dimenticate nel mondo del jazz come Bill Henderson, Mark Murphy, Johnny Adams…Non sono certo famosi come altri artisti trattati, come Tony Bennett,  beneficiato da un ritorno tardivo di popolarità, con i riflettori puntati alla sua partner Lady Gaga, o Bobby McFerrin,  ritratto nei suoi anni giovanili prima dell’exploit mondiale.

Le voci femminili sono state meno maltrattate dalla storia, ma, accanto a Carmen McRae, Betty Carter, Anita O’ Day, Federighi riesce a segnalare qualche nome interessante anche in questo campo.
Tra le chicche ci sono paragrafi dedicati a personaggi “minori” del jazz come Ray Bryant o Pony Poindexter, che nessuno aveva beneficiato di un così cordiale e approfondito trattamento.

In chiusura segnalo il capitolo dedicato al duo costituito dalla voce Etta Jones e dal
sassofonista Houston Person. Proprio il tenorista, nell’intervista riportata, afferma una cosa semplice, ma importante: “credo che alla base del jazz ci sia proprio questo, l’istinto della danza. Ed è una delle cose che abbiamo perduto, ed è una delle principali ragioni dell’inaccessibilità del jazz ai nostri giorni, soprattutto nei confronti del pubblico nero. Noi amiamo rispondere alla musica anche con i nostri corpi”.

Non solo gli afroamericani rispondono al ritmo con il proprio corpo, anche noi occidentali caucasici, allevati per chissà quale motivo biografico a latte e groove, possiamo e vogliamo farlo. Tutto sta ad avere sottomano la musica giusta.