Jeroen De Valk

Jeroen De Valk Chet Baker - Vita e musica


Collana EDT/Siena Jazz, 2022, 352 pp, 20 euro Musica | Saggi

07/01/2023 di Franco Bergoglio
“Chet Baker è forse il musicista più frainteso della storia del jazz”. Questo è l’incipit di Chet Baker - Vita e musica, una partenza che evoca una verità indiscutibile - la vita di Chet per molti è diventata una sceneggiatura su cui esercitarsi - e afferma una decisa presa di distanza da questo atteggiamento.

L’autore, per contrasto, racconta Chet Baker in maniera diversa. Jeroen De Valk è un musicista, scrittore, giornalista olandese. Ha conosciuto e intervistato Baker e ha scritto la prima biografia all’indomani della sua morte, che ora EDT presenta al pubblico italiano in versione ampliata. Scrive di Chet con obiettività e pacatezza, citando sempre le fonti di quanto narra e senza lasciarsi mai andare a pettegolezzi o sensazionalismi. Per questo gli ultimi capitoli del libro sono in parte crepuscolari e in parte strazianti; questa scrittura così asciutta contrasta con la vita disperata di Chet e la calma del racconto litiga con l’inesorabile discesa verso il precipizio. Il non esaltare il tragico finisce per enfatizzarlo e rende il libro un must per i chetbakerologi, che non sono pochi.

Solo alcuni artisti assoluti hanno sacrificato tutto all’arte come ha saputo fare Chet. Non aveva una casa, non aveva un conto in banca. Non ha mai posseduto nulla di materiale, a parte alcune macchine veloci. Pur con la scimmia della droga sempre aggrappata alla spalla, che richiedeva attenzioni costanti (e questo emerge chiaro dal libro), Chet esisteva solamente per la musica e per essa viveva come un “barbone di alta classe”. Alla fine non ha inseguito né fama né ricchezza. Contavano solo le sue passioni profonde e tra queste la musica è stata la prima. Vivendo ad altissima velocità tra donne e motori, con in faccia il destino di James Dean e con dentro la furia veloce di Steve McQueen.

Esempi di trombettisti ad alto tasso di maledizione alcolica ce n’erano già stati tanti nel jazz a partire da Bix e da Bunny Berigan. Il romanzo Young Man with a Horn (La leggenda del trombettista bianco del 1938) di Dorothy Baker pescava a piene mani nel mare alcolico di Bix Beiderbecke prima di diventare un film (in italiano Chimere, regia di Michael Curtiz, 1950). Bellezza e mito maledetto partono in fretta. Già il protagonista del film All The Fine Young Cannibals (1960, con Robert Wagner e Natalie Wood), è un trombettista ispirato a Chet.

La fine dei Sessanta e i primi anni del nuovo decennio furono i più duri per Chet. Con una carriera meno remunerativa di prima, i problemi nel rifornirsi di droga diventavano più urgenti. Gli amici lo abbandonavano. Sono i giorni in cui divide furti di ricette e medicinali in vari studi medici con Bob Whitlock, il bassista del Gerry Mulligan Quartet: storie di ordinaria abiezione legate all’uso di stupefacenti.

Negli anni Ottanta il Nostro è a tutti gli effetti europeo. Nel vecchio continente la “vita più
rilassata” e l’apprezzamento del jazz permettono un ménage che sarebbe impossibile negli States, dove “l’ascoltatore medio ha la mentalità di un dodicenne”. Parola di Chet. Un capitolo del libro è dedicato al suo suono, alla tecnica, agli strumenti scelti, alle influenze. Anche qui ci sono delle sorprese: molto meno Miles Davis di quanto alcuni pensino. In realtà Chet, nei primi anni Cinquanta, poco più che ventenne, è già una stella di prima grandezza. La sua ascesa fulminea, il declino lento, ma costante per il resto della carriera, anche se dischi e concerti memorabili appartengono sovente all’ultimo periodo, quello dei trii senza pianoforte, del suono sussurrato da seduto, dell’uomo ripiegato sullo strumento, che distilla un sussurro di poesia.

Tanti sono i suoi seguaci: Till Brönner, Chris Botti e gli italiani Felice Reggio, Enrico Rava, Paolo Fresu. Questi ultimi due insieme pubblicano il disco Shades Of Chet (1999) che l’autore del libro considera il più bell’omaggio mai inciso. Nel finale sono riportate illuminanti dichiarazioni di suoi sodali, amici e studiosi. Per farvi venire l’acquolina in bocca ecco una raffinata citazione, scelta da Jeroen De Valk nel memoir dello scrittore-musicista Mike Zwerin Close Enough for Jazz (1983). “Arriva a toccare la parte del nostro intimo che viene toccata dagli ultimi quartetti per archi di Beethoven, un pozzo spirituale in cui la musica diventa religione...Per i suoi fan Baker diventa il metro di paragone con cui giudicare il quoziente di onestà in altri. Per prima cosa cerca di arrivare all’emozione, usando solo la quantità di tecnica strettamente necessaria. Altri improvvisatori cercano di dominare la tromba, suonare forte e veloce, facendo cadere le mura di Gerico a forza di acuti. Baker costruisce nuove mura. Ne ha bisogno per proteggersi. Suonava sempre seduto, piegato su se stesso come un punto interrogativo”. Chet un punto interrogativo lo è stato per davvero e la sua personalità continua a sfuggirci. Per consolarci abbiamo un buon libro e una miriade di dischi. Ci serve altro?

 

Jeroen de Valk (Rotterdam, 1958) è un musicista, scrittore e giornalista olandese. Scrive di musica come freelance per diverse testate olandesi fin dal 1979. Fra i numerosi volumi che ha dedicato al jazz, nel 1989 ha pubblicato la prima edizione dell’acclamata biografia di Chet Baker, e nel 1992 la monografia di riferimento sul sassofonista Ben Webster (In a Mellow Tone).