Geoff Dyer

Geoff Dyer Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri


Il Saggiatore, 2023, traduzione di Katia Bagnoli, collana La Cultura, 360 pp., 25 euro Racconti | Biografie

06/09/2023 di Franco Bergoglio
A dar retta alle prime recensioni uscite questo libro non parlerebbe di tennis ma dei “finali illustri”, del modo in cui gli sportivi, gli artisti e gli esseri umani in genere concludono la propria carriera. Invece Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri parla diffusamente di tennis, lo sport preferito dallo stesso Geoff Dyer che non può astenersi dal giocare almeno una partita a settimana.

Il libro porta in sé l’eco della pandemia, quando tutti noi siamo rimasti chiusi in casa, in un tempo sospeso, e abbiamo avuto tempo in abbondanza e un irreale silenzio per riflettere su noi stessi e sul futuro. Partendo da questo dato autobiografico il libro a ventaglio si allarga a tutte le passioni che hanno accompagnato la vita e l’opera di Dyer: la filosofia, le arti visive, la fotografia, la poesia, il cinema e la musica. La natura di queste riflessioni in libertà, eterogenee per lunghezza e argomento, le rende pillole di saggezza; il pericolo di autoreferenzialità insito in questo gioco è scongiurato dall’autore che mantiene la penna leggera quando parla di se stesso, ma quando ragiona di arte - e veste i panni del saggista/critico - si conferma uno dei migliori scrittori al mondo.

Dyer trasforma questa sorta di “lungo addio” in una corsa cabalistica contro il tempo e contro il se stesso che sta raggiungendo i 60 anni: l’architettura del libro è composta da 3 sezioni ciascuna composta da 60 frammenti, con un termine ultimo esterno per ultimare il libro, dato dal ritiro di Federer. Si diceva della musica e non a caso i primi due paragrafi sono dedicati a The End dei Doors, l’ultima canzone eseguita dal vivo dal gruppo prima dell’abbandono di Jim Morrison e a un verso da Tangled Up In Blue del Bob Dylan anni Settanta.

Se il testo è ricchissimo di spigolature sull’arte di scrivere e sulla letteratura, perché scomodare Federer per il titolo? La risposta arriva oltrepassata la metà del volume,  dove si affrontano i finali di carriera di Borg, McEnroe, Sampras e finalmente di Federer, per l’autore il depositario con il suo gioco di una verità ultima: «Aveva dimostrato ancora una volta che il modo più efficace di giocare a tennis era anche il più bello, e viceversa. Estetica e vittoria potevano andare di pari passo». Lo sport come metafora.

Parlando delle vittorie di Muhammad Ali, ripesca una frase del suo medico Ferdie Pacheco (peraltro un buon pittore, anche di soggetti musicali, chissà se Dyer lo sa?) il quale affermò: «È per questo che nella boxe si muore, quando l’incontro diventa più importante della vita». Il tennis è certo meno ultimativo nel suo confronto tra vita e morte, ma dietro tutto questo giocare, dietro il rifugio di Venice dove Geoff Dyer ha stabilito il suo buen ritiro californiano, sembra di intuire una resa da campione che sta lasciando il ring, anche se si tratta di quello m etaforico della letteratura: quando scrive che si vive «aspettando in modo attivo che tutto finisca».

Intorno a questo pensiero della vecchiaia e della morte danzano varie riflessioni, dalle lettere di Philip Larkin alle liriche di Louise Glück. La poetessa americana viene citata svariate volte e in particolare colpisce con due versi da Labor Day: Un giorno sei un bambino biondo a cui manca un dente;/quello dopo, un vecchio a cui manca l’aria.
Per le arti visive ci sono pagine e spigolature dedicate alle ultime prove pittoriche di William Turner e Giorgio de Chirico, ma la maggior parte dei riferimenti ad artisti che hanno danzato presto con la fine o vissuto in un tempo sospeso sembra pendere verso la musica, con le vite tragiche di Albert Ayler o di Art Pepper oppure con esempi emblematici, ma meno drammatici, come il trio di Keith Jarrett che semplicemente cessa di esistere evitando una lunga fase di performance calanti... O come l’elettronica di The Disintegration Loops di William Basinski, dove un
nastro contenente un frammento di musica brevissimo che viene rimandato all’infinito finché non va in pezzi definitivamente diventando inudibile. In questo Dyer vede il deterioramento dilatato nel tempo dalla ripetizione.Si tratta di una sorta di lunghissimo effetto sfumato, dura un’ora e lascia all’ascoltatore la sensazione di assistere a unasorta di morte elettronica.

Il volume ruota attorno ad alcuni caposaldi: il jazz, Beethoven, il tennis...Friedrich Nietzsche. Il filosofo tedesco torna continuamente e non solo per il suo ritiro dal mondo compiuto mentre era ancora in vita (ricordiamoci che nel suo epistolario già profetizzava che «C’è chi è nato postumo»). I frammenti sono tanti e uno in particolare riguarda Torino e il suo jazz festival, dove Geoff Dyer ha partecipato come conferenziere in una delle prime edizioni. La città e la targa ispirano a Dyer diverse pagine. Per alcuni mesi tra il 1888 e il 1889, Nietzsche visse in città. Un lasso di tempo breve, nel quale il grande filosofo tedesco ebbe modo di apprezzare (e scrivere di) Torino. La fine del soggiorno torinese di Nietzsche fu però tragica e coincise con uno degli episodi più drammatici della sua esistenza, quando, uscendo dall’appartamento dove risiedeva nella centrale Via Carlo Alberto, Nietzsche vide un cocchiere frustare rabbiosamente il suo cavallo. Nietzsche, sconvolto da quella cieca ferocia, corse ad abbracciare l’animale, avvenimento che secondo alcuni segna l’avvio del definitivo collasso mentale.

«Nel 2013 mi trovavo a Torino per un jazz festival e mi resi conto che stavo passeggiando in una piazza familiare, ma resa irriconoscibile da un’ampia ristrutturazione. Una recinzione ondulata blu delimitava una parte dell’edificio
all’angolo di quella che capii essere Piazza Carlo Alberto. Pensai che per effetto della legge di Murphy la targa si trovasse proprio dietro quella recinzione, negando così al pellegrino la conferma – il timbro sul passaporto psichico, il selfie senza telefonino – che brama. E poi la vidi, all’angolo della strada da cui ero entrato nella piazza. Lo sconvolgimento del cantiere rendeva più che mai evidente la necessità di un nuovo munumento che liberasse Nietzsche dalla magniloquenza bellica, quasi fascista dell’eroe e della volontà di potenza. Invece si sarebbe dovuta essere una scultura del momento in cui egli gettò le braccia intorno al povero cavallo picchiato dal vetturino».

Chissà se a Dyer è venuto in mente che, recuperando questa storia, ha anche citato il Milan Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere.
A parte il tennis la musica è l’altra costante presente in quasi ogni pagina, da Wagner a Pharoah Sanders. Il lavoro termina con due “finali” musicali, tracciando un parallelo tra Beethoven e Coltrane condotto alla luce di alcune affermazioni di Adorno sul compositore tedesco. Per il filosofo le opere tarde di Beethoven sono il trionfo della pura espressione contro le regole formali. Lo stesso può valere per John Coltrane?
La prova del nove utilizzata da Dyer per rispondere alla domanda è il celeberrimo brano My Favorite Things, in particolare la versione pubblicata postuma del concerto alla Temple University (novembre 1966) un evento che si colloca, per gli amanti di Coltrane, tra il live in Giappone di luglio e l’Olatunji Concert (aprile 1967), ultima prova live del sassofonista prima della morte. Dyer rimastica concetti che aveva espresso meglio in altri lavori dedicati al jazz, ma il parallelo con Beethoven via Adorno è carico di poesia.
«Della composizione originale di Rodgers e Hammerstein è rimasto ben poco, ma tra I relitti del naufragio, come disse Adorno a proposito dell’ultimo Beethoven, “sono disseminate formule e frasi della convenzione”. La loro
bellezza è esaltata dal paesaggio devastato che minaccia sempre di inghiottirle».
Come condensare questo saggio sui generis, questo atto unico da “finale di partita” alla Beckett? Anche qui Dyer ha il taccuino delle citazioni aperto: «Non esistono secondi atti nelle vite degli americani» come scrisse Francis Scott
Fitzgerald nell’ultimo romanzo incompiuto, Gli ultimi fuochi.

 

 

 

 

 

 

Geoff Dyer, l'eccentrico autore del celebre "Natura morta con custodia di sax" (ripubblicato da Einaudi Stile Libero nel 2013), ritratto dei grandi della musica jazz, vive a Londra. Oltre al saggio sulla fotografia "L'infinito istante" (Einaudi, 2007) Dyer è anche autore di vari volumi di critica letteraria (saggi su John Berger e D. H. Lawrence), libri di viaggi ("Yoga per gente che proprio non ne vuole sapere", Mondadori), e varie opere di narrativa ("In cerca", "Brixton Pop", "Paris Trance", "Instar"). "Amore a Venezia. Morte a Varanasi" (Einaudi Stile libero, 2009), dopo undici anni, ha segnato il suo ritorno al romanzo.


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