Claudia Berton

Claudia Berton Sulle vie del levante


Stampa Alternativa, 2003, € 12,00

di Simona
Sulle vie del Levante è indubbiamente un titolo dal sapore antico così come antico –e non è un attributo sfavorevole- è il gusto di questa biografia. Una biografia che l’autrice ha voluto dedicare a lady Hester Stanhope, gentildonna inglese vissuta ai primi dell’Ottocento che, però, si rivela eccezionalmente moderna. Si tratta di un personaggio sconosciuto all’autrice prima di imbattersi in esso nella nota a pié di pagina di un libro che stava leggendo. Una nota davvero folgorante, che l’ha portata ad affrontare una ricerca estremamente impegnativa, ma che non si traduce in un racconto particolarmente “partecipato”, bensì in qualcosa di molto più simile ad una cronaca senza sussulti. Lady Hester lascia l’Inghilterra per un Grand Tour – allora in voga tra le classi abbienti d’Europa - che si conclude sulle aride montagne libanesi da cui, però, non farà più ritorno. Essa attraversò la Spagna, l’Italia, la Turchia e l’Egitto e visse una vita segnata da un carattere eccezionalmente volitivo, da poche passioni però assolute, da coerenza ed orgoglio d’acciaio, da un estremo senso della giustizia unito alla fede in un’aristocrazia equa e portatrice di alti valori, esempio di una condotta dignitosa. Non si tratta di un personaggio particolarmente “simpatico” tuttavia ci troviamo di fronte ad un’aristocratica illuminata, ad una donna coraggiosa e anticonformista, ad una persona coerente e singolarmente solitaria, ad un’indole curiosa, tollerante e cedevole al mistero della magia mediorientale. Lady Hester fu certo una donna singolare: lo fu particolarmente per il tempo in cui visse ma lo sarebbe stata per qualunque epoca. Basti pensare che fu capace di dilapidare tutta la sua fortuna per dare assistenza a profughi spesso in fuga da terre costantemente insanguinate da lotte intestine e guerricciole locali fra i vari pascià o capi-clan. O che negli ultimi anni di vita si fece murare viva per protesta nella sua casa in cima al monte Libano, lasciando solo un’apertura sufficiente per il passaggio di un mulo con un carico d’acqua.

D’altro canto questo è anche un libro di viaggio in cui, nell’epoca di Byron e Shelley, il Medio Oriente ancora era, romanticamente, il Levante. Un luogo che, in un immaginario pre-terroristico, era la bellezza esotica, il misterioso, l’esoterico, la poesia. Ed è un viaggio nel quale, mentre Napoleone attua gli ultimi affondi sul continente, riscopriamo le radici dei primi contatti fra Europa e Medio Oriente. La prima ricercava alleanze e intrighi capaci di garantire la supremazia all’una o all’altra potenza continentale nell’ottica dello scacchiere europeo mentre, al contempo, scopriva affascinata la cultura magica e la bellezza di quella che era chiamata la Sublime Porta. Il secondo, dal canto suo, guardava con crescente ammirazione e un poco di invidia all’esponenziale progresso tecnologico europeo, mentre i pascià locali facevano cavare gli occhi e tagliare le teste a chi li tradiva per poi darli in pasto ai cani, e nel quale i beduini offrivano ai loro ospiti tre tazzine di caffè: “una amara come la vita, una dolce come l’amore, una soave come la morte”.

In conclusione questo libro offre, in maniera raffinata e pacata come una cerimonia del tè inglese, niente di più e niente di meno rispetto a quello che promette a coloro che hanno voglia di vedere con occhi antichi, e di conoscere esistenze singolari e deliberati destini.

“…il fascino dei beduini e del loro mondo agli occhi degli occidentali non avrebbe fatto che crescere con il passare degli anni, in proporzione con la distruzione del loro mondo da parte dell’avanzante “modernità”: “fiori fragili” come li avrebbe definiti Lèvi Strauss- destinati a soccombere in un mondo sempre più omologato- il fascino unico dei beduini andava infatti in senso esattamente contrario a quello della civiltà occidentale per la loro capacità di vivere e costruire la propria filosofia sul vuoto, animato da impalpabili spiriti chiamati “jinn”, materializzati in mulinelli di sabbia e quasi sempre ostili agli uomini. Racconta T.E. Lauwrence di essere stato invitato un giorno da una delle sue guide a sentire da una finestra ad oriente il profumo più delicato di tutti, quello del vento del deserto, “vuoto, inerte, limpido, alito stanco nato in qualche luogo oltre l’Eufrate lontano ed ora, dopo molti giorni e notti di viaggio tra l’erba morta, giunto al primo ostacolalo: le mura del nostro palazzo in rovina, opera dell’uomo. (…) “Questo” – dicevano gli arabi –“è il profumo migliore: non sa di nulla”. Voltavano le spalle ai profumi, al lusso, per scegliere le cose in cui l’uomo non aveva avuto parte alcuna.”