Antonio Castronuovo

Antonio Castronuovo Suicidi d’autore


Stampa Alternativa, 2003, € 8,00

di Simona
D’accordo, il tema può apparire per lo meno tetro, ma forse nessun tema è lugubre in sé, tutto dipende dal modo in cui lo si affronta. Certo l’argomento è meno banale e più complesso di molti altri, e tuttavia questo piccolo libretto di centoventi pagine opera una ricognizione curiosa, rispettosa e totalmente priva di morbosità nella vita di quindici artisti del novecento, e nella loro morte volontaria. Non c’è traccia di fissazione ossessiva perché l’autore si propone un fine che non è affatto quello di indagare nella disperazione degli individui, o nello loro eventuali patologie psicotiche, o di insistere sul senso di vuoto esistenziale che li induce a decidere la morte volontaria. Non c’è traccia di nichilismo ma al contrario l’autore, realizzando per ogni personaggio un breve ritratto, ne sottolinea non le carenze e le mancanze, bensì il genio che li rese artisti. Ed è per questo che sono suicidi d’autore. Se il suicidio è sempre considerato un atto debole e negativo, l’ammissione di una delusione e di una sconfitta, in certi rari casi, quando a sceglierlo è un artista, esso può risultare come il coronamento della sua esistenza: ossia il suggello “d’autore” alla sua vita di artista.
Come quello, davvero emblematico e a suo modo “consolante” di Angelo Fortunato Formiggini, piccolo editore che aveva fatto dell’ironia il proprio credo, e che in epoca fascista si vide togliere la voce. Ma l’atto che non poté tollerare fu la promulgazione delle leggi razziali. Così, ai primi cenni della campagna razziale, nel 1938, già decise il da farsi. Così scrive: “Formaggino da Modena, editore in Roma, sopportò sorridendo XVI anni di dominazione fascista che lo aveva raso al suolo. Ma quando ignobili penne, per atavico odio plebeo, o per turpe mercede, o per puro contagio tedesco, iniziarono una campagna razzista, sdegnato si condannò a morte per alto tradimento; sostituendosi al vero colpevole, per stornare dalla sua Patria amorosamente diletta il danno e la vergogna.” …perché “Crepare è il solo diritto che sia rispettato: sarebbe peccato non ne approfittare”… e in una giornata uggiosa di fine novembre si getta dalla torre campanaria di Modena, la Ghirlandina.
Del resto ciò che stupisce nel leggere il libro è che invece che trovarsi dentro alla disperazione, ci si trova davanti alla semplice realtà della vita perché, anche se spesso lo si dimentica, essa è strettamente legata alla morte anzi, comporta la morte. Certo non la morte volontaria ma forse ciò che più si apprezza nel modo in cui sono state trattate le storie è appunto il fatto che, alla fine, non emerge la disperazione ma la vita, ossia un percorso che, a prescindere dalle esistenze di ciascuno, comincia e termina per tutti allo stesso modo. Sarà la volontà di essere per forza positivi, sarà che davvero il suicidio d’autore è così coerente con l’artista da sembrare quasi la naturale conclusione della sua vicenda terrena ma, alla fine, quel che vedo in queste quindici storie non sono delle vie di morte bensì dei percorsi di vite vissute.