Non è Montalbano, ma è sempre Camilleri. Una fortuna che questo signore abbia deciso di scrivere tanti libri e che qualcuno abbia deciso di pubblicarli. Perché non possibile stancarsi della sua ironia lucida, né delle sue storie semplici, brevi e archetipiche. Perché c’è bisogno di una voce leggera che parli di manipolazioni della realtà e sopraffazioni antiche o romanzesche, ma attualissime e reali: tanto che il presente volume prende lo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Siamo nella Vigàta di fine Ottocento e il protagonista è Giovanni Bovara, di origine vigatese ma vissuto da sempre a Genova. Bovara è stato chiamato a fare l’ispettore ai mulini dopo che entrambi i suoi due predecessori sono stati trovati morti in circostanze misteriose. La correttezza di Bovara da subito si scontra con gli onniscienti interessi mafiosi della zona, eppure l’ispettore riesce a barcamenarsi fino a quando, casualmente, si trova ad essere testimone dell’omicidio di un prete corrotto. E’ a quel punto che le connessioni mafiose allestiranno una messinscena magistrale in grado di coinvolgere il povero Bovara, trasformandolo in poche ore da testimone ad imputato dell’omicidio. La furbizia, l’assurdità e l’omertà che lo circonda sembrano sopraffare Giovanni, che prende a piangere come un bambino. Eppure in carcere, chiuso in ostinato mutismo, egli pensa e ripensa e poi riprende a parlare. Ma quando lo fa lo fa in siciliano perché, dice, fino a quando non sarà proclamato innocente penserà e parlerà solo in siciliano. Ed è così che dal carcere, reimpossesatosi della lingua e quindi della mentalità dei propri padri, Giovanni Bovara gioca la sua partita azzardando una mossa imprevista che riuscirà a spiazzare gli uomini d’onore suoi avversari. Ma la vittoria è comunque parziale, come bene spiega il Procuratore del Re, il torinese Ottavio Rebaudengo, al giudice istruttore Giosuè Pintacuda. La verità a cui si può giungere in Sicilia sarà solo e sempre una mezza verità. Cadrà una pedina, forse anche quella sopra, e forse anche quella sopra ancora ma, alla fine, il magmatico ambiente siciliano riuscirà sempre ad assorbire il trauma, e a trovare amici e coperture tali da consentire al pezzo grosso di rimanere in piedi. Così Giovanni Bovara se ne torna al mare di Genova ed il Procuratore è trasferito a Torino.
“… il procuratore Rebaudengo stava sognando d’essere sul ponte di una nave. La costa della Sicilia era oramai una striscia sottilissima che appena si distingueva, un tratto sempre meno marcato a dividere mare e cielo. E proprio nell’attimo che non la distinse più seppe, lucidamente, di avere amato quella terra e che prima o poi ci sarebbe tornato. Si svegliò. “Mi ci romperò la testa” disse ad alta voce”.
Solo il giudice Pintacuda rimane a continuare la partita a scacchi iniziata da Bovara, consapevole però che non potrà mai arrivare allo scacco matto e che tutt’al più potrà finire in parità. Ed è per questo, forse, che fa strani sogni.
“Il giudice istruttore Giosuè Pintacuda, senza sapìri né pirchì né pircomu, si era venuto a trovare proprio in mezzo a una battaglia. Si sentivano voci e sparatine da ogni latata. Il bello è che lui, pur sapendo benissimo da quale parte stava e chi fosse il nemico, non aveva ricevuto ordini precisi su quello che doveva fare. Perciò l’unica era portare pacienza e aspettare. Stava stinnicchiato in terra, con un fucile tra le mani. Era certo che avrebbe dovuto prima o doppo sparare. Intanto, cchiù forte dei colpi e delle grida, sentiva il suo cori che batteva contro il terreno coperto da aghi di pino”.