Alessandro Piperno

Alessandro Piperno Con le peggiori intenzioni


Mondadori, 2005, € 17,00 Narrativa Italiana

di Simona
“Bepy e Ada si sentivano in credito. Ecco tutto. Solitamente la gente che ha rischiato la pelle sviluppa una circospezione travestita da incubo notturno o da diurno presentimento. Ecco, invece, i Sonnino attribuirsi una speciale immunità plenaria, sorretta da una parte dalla convinzione che chi ha avuto il fegato di traversare una così enorme sciagura sia attrezzato al superamento delle successive di sicura minore entità, dall’altra dalla consapevolezza del diritto al risarcimento, garantito da qualsiasi religione monoteistica e da ogni giurisprudenza liberale…”
E’ stato detto molto su questo libro. Un tema nuovo nella narrativa italiana, la storia di una certa alta borghesia romana, dal dopoguerra agli anni ottanta, tracciata attraverso il racconto in parte autobiografico della famiglia Sonnino che, tra l’altro, possiede la caratteristica di essere di tradizione ebraica. Un libro scritto bene, con un linguaggio ricco e una prosa affabulatoria. Uno stile che strizza l’occhio proponendo incessantemente toni arguti, autoironia, periodi brevi e immediati che richiamano volutamente autori ebrei-americani come Saul Bellow o il Philp Roth del Lamento di Portnoy. Allo stile, che fa di tutto per essere incisivo, fa da contraltare una struttura più lenta, concentrica la quale, così dicono, addirittura rimanda a Proust. L‘autore per pagine e pagine gira intorno al racconto di un fondamentale episodio dell’adolescenza di Daniel, il protagonista, per poi allontanarsi, indugiando nella presentazione di una girandola di famigliari e amici, raccontandone caratteri, episodi salienti o apparentemente insignificanti. La carrellata è varia, puntando l‘attenzione soprattutto sui “padri”. Si va dal capostipite, il nonno paterno Bepy, irriducibile dandy, libertino imbroglione; al padre Luca, albino entusiasta sospettosamente vacuo; allo zio Teo, la cui sola forma di ribellione verso lo stravagante padre, lo induce ad un’adesione intransigente ed ortodossa alla religione che lo porta a trasferirsi in Israele. E poi il fratello Lorenzo equilibrato e sicuro di sé; la zia Micaela da cui trae origine la mania erotica di Daniel per i piedi e le calze delle donne; la madre dolce, frustrata, ricattatrice d‘affetto, meno frequentemente citata rispetto agli uomini della famiglia, ma quanto intensamente! (da vero personaggio ebreo…l’assoluto rapporto con la Madre!)
“Ma quando i successi per cui tanto mia madre s’era adoperata arrivavano, allora il suo contegno mutava di colpo. Non amava ostentare tripudi…Doveva provare una gioia masochista nel togliersi di mezzo…Era un gioco al massacro. Una disciplina orientale dell’autodegradazione dell’io, in favore d’una felicità cosmica…E io e Lorenzo dovevamo sembrare, agli occhi del mondo, due grasse damigiane traboccanti di senso di colpa nei confronti di quella madre troppo buona per essere vera.”
E poi l’altro nonno Alfio, che ci regala una splendida descrizione dell’intera categoria di meschini, mediocri, “gentili” parvenu!
“Alfio è un provinciale che ha fatto fortuna attraverso un’ostinata determinazione, attraverso il mito del risparmio e dell’investimento sicuro. Niente libri, niente cinema, niente analisi. Niente seghe, niente eleganza. Niente cucina sofisticata. Nessuna contrapposizione ideologica. Nessuna commozione, nessuno sport. Nessuna squadra da tifare. Nessun sogno irrealizzabile, nessun adulterio, nessuno slancio…Nessun grillo per la testa…Un affarista senza talento per gli affari ma che adora il martirio. Uno che deve tutto a se stesso e al sacrificio inflitto ai suoi familiari. Uno che adora fare prediche apocalittiche. Uno che ha costruito la propria fortuna sugli altrui consumi, ma che non è disposto a consumare a sua volta…Uno che non ama viaggiare…La sua discriminazione coinvolge tutti coloro che non condividono la sua origine, la sua generazione, la sua visione del mondo, e quindi circa cinque miliardi e passa di persone…”
E ancora. L’amico Dav che asseconda il passato inventato della madre, il vecchio odiato Nanni Cittadini e soprattutto Gaia, l’amore adolescenziale causa della rovina di Daniel.
“Bisognava stare lontani da quella ragazza: ma solo Iddio poteva sapere quanto fosse difficile. Il problema era che la lontananza da lei non mi aiutava quando le ero lontano, così come la vicinanza non mi aiutava quando le ero vicino. Ero atterrito dal pensiero che lei non mi pensasse ma lo ero ancora di più all’idea che lei potesse prendermi in considerazione.”
Per tutto il libro Daniel ci propone la sequela di personaggi analizzandoli come sotto al vetrino di un chimico, con un registro che è sempre quello dell’ironia acidula. E a mano a mano che avanziamo nella lettura Daniel, mezzo ebreo afflitto da un inestricabile amore-odio per gli ebrei, si racconta presentandosi come uno sgangherato, paranoico, lamentoso, farneticante, intelligente, invidioso, depresso, bugiardo, ansioso, livido adolescente, uno “brutto e macchinoso”, incredibilmente portato alla masturbazione (anche in classe davanti a tutti i compagni allibiti) e alla celebrata, decantata, ostentata perversione delle calze di donna. Un adolescente che, a suo stesso dire, si trasformerà in uno sgangherato, paranoico, lamentoso, farneticante, intelligente, invidioso, depresso, bugiardo, ansioso, livido uomo, uno “brutto e macchinoso”, incredibilmente portato alla masturbazione e alla celebrata, decantata, ostentata perversione delle calze di donna. L’autore non lesina lapidarie frasi ad effetto, nonché la descrizione di rapporti familiari profondi e potenzialmente crudeli. Soprattutto rimane la girandola di personaggi accattivanti ma non simpatici, anzi, quasi una galleria degli orrori; eppure la loro umanità e la mancanza di ipocrisie li rendono davvero speciali, nonostante il ridondante compiacimento ebraico-autolesionistico. Tuttavia alla fine qualcosa manca. La critica feroce alla propria famiglia, addirittura “con le peggiori intenzioni”, a cosa conduce? Al ripudio? Al perdono? Dopo il pur sincero disincanto e l’implacabile esame delle magagne dei Sonnino, alla fine Daniel sembra proprio dovere a loro il fatto di essersi “salvato”, ma non prende posizione. Forse la sola cronaca dei fatti ci deve bastare a spiegare il substrato che ha fatto di Daniel quello che è, e che, allo stesso tempo, l’ha “difeso” dal fatto di essere Daniel. Ma alla fine quello che non è chiaro è chi sia Daniel veramente. Se il resto della famiglia è vivisezionato ed esposto, Daniel ci mostra di sé solo la facciata che vuole far conoscere, ma non si rivela mai veramente. L’autoironia, più che svelare, nasconde. Così in questa bella saga familiare, molto rimane sospeso: il rapporto fra Daniel e la sua famiglia così come la vera essenza di Daniel. Per una precisa volontà o per mera pigrizia? Allora forse in questo romanzo accattivante, comunque riuscito, manca il coraggio di andare fino in fondo?
“Forse io mi ero semplicemente salvato. Da che cosa? Dalla tentazione di non-vivere-per-non-soffrire che conduce alla rancorosa nostalgia per la vita che usiamo attribuire agli zombie o ai fantasmi. Diciamo che la malattia - pur avendomi lambito fino a pervertire il mio carattere, pur avendomi attizzato lo sguardo conducendolo alle soglie della visionarietà autopersecutoria - non aveva saputo scavare un solco definitivo tra me e l’esistenza, tra me e i miei impegni di bravo ragazzo borghese tra me e la mia aspirazione a uscire da quel pantano di angosce pregenitali. Come se qualcosa mi avesse protetto. C’è chi banalmente la chiama “ironia”. A me piace pensare a Bepy, a mia madre, a mio fratello, ai loro involontari seminari dedicati alla demistificazione.”