Robert Bresson

drammatico

Robert Bresson UN CONDANNATO A MORTE è FUGGITO


1956 » RECENSIONE | drammatico
Con François Leterrier, Charles Le Clainche, François Beerblock, Roland Monod, Jacques Ertaud, Jean-Paul Delhumeau

di Salvatore Molignano
Troppo spesso Robert Bresson è stato dimenticato e lasciato da parte dai cinefili. Ciò a torto, in quanto è stato un genio che ha saputo coniugare espressività della cinepresa con lo sviluppo di profonde tematiche morali e anche religiose. “Un condannato a morte è fuggito”, insieme al bellissimo “Diario di un curato di campagna”, rappresenta di certo il manifesto artistico Bergsoniano. Chi conosce i film di questo severo e isolato regista francese, sa che egli non fu mai amante degli scenari elaborati e dei virtuosismi tecnici, restava sempre di uno stile fortemente rigoroso e sobrio, ma per questo di una grande forza visiva perchè sapeva bene che nel cinema sono le immagini a parlare, anche nella loro essenzialità e crudezza. In questo capolavoro dai tratti introspettivi, senza cedere allo psicologismo estremo Hitchcockiano, si narra la vicenda realmente accaduta di un’evasione da un carcere nazista. A ben guardare ciò non si discosta molto nel soggetto da molti altri film che parlano della fuga dal carcere e della dura lotta per la libertà. Numerosi sono stati i film che la storia del cinema ci ha offerto sull’argomento. Ciò che cambia, come vedremo, è il modo di raccontarla una fuga. Nel 1943, durante l’occupazione nazista della Francia, il tenente Fontaine è condotto in carcere su un’automobile. Approfittando di un rallentamento, l’uomo tenta di scappare, ma viene subito ripreso e percosso. Portato in carcere, viene ancora picchiato duramente e gettato in cella svenuto. Dopo giorni di agonia ricomincia a maturare i suoi ambiziosi piani di fuga. Arrampicatosi fino all’inferriata della finestra, scorge tre uomini, detenuti anch’essi, che camminano nel cortile. Fontaine riesce a parlare con uno di questi, che riesce a fornirgli una matita. Battendo inoltre dei colpi sul muro, Fontaine riesce a comunicare col vicino di cella, un giovane di diciannove anni in attesa di essere fucilato. Da rimarcare è l’ uso assolutamente soggettivo dello sguardo del prigioniero da parte del regista: la reclusione è raccontata dall’esclusivo e claustrofobico punto di vista di Fontaine. E’ lui che narra nel presente, con la voce fuori campo, la sua esperienza con meticolosità, ed è molto raro che la cinepresa stacchi sull’esterno della sua cella. Tutto è vissuto in maniera tale che lo spettatore fosse anch’esso nella cella a condividere ansie e sofferenze. Noi non vediamo mai il vicino di cella, sentiamo solo i suoi colpi dall’altra parte del muro. Dopo aver fatto conoscenza in cortile con Hébrard, viene portato in un’altra cella. Qui, scopre che esiste il modo di aprire la porta di legno. Procurandosi un cucchiaio, lo affila sul pavimento per farne una sorta di coltello e inizia a levigare le assi, che sembrano cedevoli. Continuerà a lavorare per giorni interi senza farsi scoprire dalle guardie, in silenzio, e ossessionato dall’idea di fuggire. Il nuovo vicino di cella non risponde mai ai suoi colpi, turbandolo. Invano Fontaine tenterà di parlarci dalla finestra. Scoprirà essere il vecchio Blanchet, che in cortile gli sconsiglierà la fuga perchè ciò potrebbe mettere in serie difficoltà con i nazisti tutti i prigionieri. Il lavoro è a buon punto, ma il cucchiaio si rompe. Un sacerdote, prigioniero anche lui, trova una Bibbia. Contemporaneamente Fontaine trova un altro cucchiaio e continua a lavorare sulla porta. Nel lavatoio Fontaine conosce Orsini, che è stato denunciato dalla moglie ai tedeschi, ma è riuscito a superare il suo odio. Finalmente Fontaine riesce a togliere tre assi dalla porta e ad uscire; approfittando dell’assenza dei superiori fa un giro di ricognizione per il piano. Orsini gli chiederà di fuggire con lui, mentre Blanchet continua a sconsigliargli la fuga. Disfando la rete metallica del letto e tagliando a strisce il cuscino, incomincia a fabbricare le corde per arrampicarsi fuori. Orsini non è soddisfatto del piano di fuga di Fontaine, mentre Blanchet recita dalla finestra al protagonista un brano del Vangelo copiatogli dal pastore. Si sente una raffica: Orsini è stato fucilato dopo essere scappato sul tetto del carcere. I nazisti comunicano a tutti che chiunque verrà trovato in possesso di una matita sarà fucilato immediatamente. Fontaine non consegna la sua e continua di nascosto a fabbricare le corde per la fuga. Condotto al comando tedesco, gli viene ufficializzata la sua condanna a morte, da eseguirsi in pochi giorni. Fontaine tuttavia non si demoralizza per questo, anzi con maggior forza e coraggio riprende il lavoro. Gli viene messo un compagno di cella, il giovane Jost. Fontaine viene avvertito dai compagni sul fatto che si tratta presumibilmente di una spia. Per questo Fontaine lo interroga a lungo e lo maltratta in cella. Esortato da tutti a fuggire, consegna il suo testamento al pastore, prepara un’ultima corda e associa con sé il giovane Jost che accetta di scappare. Arriva l’ora fatidica, e non senza paura e incertezza, Fontaine e Jost riescono ad eludere due posti di guardia (uccidendo anche un soldato), fino a calarsi fuori dalla prigione, riacquistando la libertà. L’accuratezza con cui Bresson rielabora senza fronzoli la vicenda di André Devigny nel carcere di Montluc, a Lione, vuole far emergere il valore sacro della volontà. Senza volontà non si fa nulla, e vuole essere un messaggio di speranza, non solo morale. Bresson non racconta infatti la storia di un’evasione (come potrebbe fare ad esempio “Fuga da Alcatraz”), ma la storia di un uomo che evade. Il punto di vista esteriore e interiore, psicologico è sempre quello del prigioniero. Noi siamo con lui, nella sua cella e con lui maturiamo, realizzandolo, il piano di fuga. La sua volontà, ferrea e testarda volontà, vuole essere anche quella di noi “voyeurs”. Il regista ricerca con minuziosità il vero, e lo rende a noi attraverso pochi e semplici elementi, che sono i cardini della vicenda: la porta (che si sgretola a poco a poco), il cucchiaio (strumento quotidiano ma reso qui arma salvifica), la Bibbia. Ciò che traspare dallo stile rigorosissimo utilizzato, è la mancanza di inquadrature “spettacolari” o particolarmente bizzarre. Ciò era tipico del cinema di Bresson; infatti sono evitate le strane angolazioni e i movimenti di macchina brillanti in stile “Nouvelle Vague”. I pochi oggetti rappresentati (il cucchiaio, la rete del letto,ecc...), sono i veicoli diegetici, di conseguenza l’attenzione si poggia tutta su di loro, rendendoli di un’ intensità eccezzionale. Bresson si limita a usare i primi piani e i mezzi primi piani per tutti i personaggi, e il dettaglio per gli oggetti. Quasi mai si ha un campo lungo: evitato categoricamente nella cella (viene resa così l’assoluta crudezza della prigionia e il suo senso di soffocamento), viene usato solo nel cortile, dove viene aumentata l’angolatura inserendo anche le figure intere. E’ la forza visiva che il semplice (ma non per questo povero) cinema di Bresson ci offre. Una nota a parte merita il discorso religioso. Non stiamo parlando in questo caso di un film dal tema religioso, ma spesso il regista francese ha trattato le sue opere anche in questa chiave. Qui non c’è eccezione, poichè chiari e frequenti riferimenti alla fede e alla Provvidenza sono presenti: dal pastore prigioniero, al ritrovamento del cucchiaio contemporaneamente a quello della Bibbia, al perdono di Orsini verso la moglie che lo ha denunciato ai suoi carnefici, alla lettura del Vangelo che dà forza a Fontaine poco prima della fuga.