Metti un regista che nel passato è stato l’Autore con la A maiuscola di due dei film di fantascienza più importanti di tutti i tempi, due veri cult movie come “Alien” e “Blade runner”; prendi due attori che qua si superano, e aggiungi una delle sceneggiature più coerenti del genere. Ecco questo è il mix che fa di “American Gangster” uno dei polizieschi (anche se è un po’ limitativa come definizione) degli ultimi tempi. Il film di Ridley Scott è per certi versi una vera e propria sorpresa perché, se da una parte lui è un autore culto, dall’altra è anche un regista in parte perso, tra le grandi produzioni, alcune soddisfacenti e di grande successo (vedi “The Gladiator”), e molti altri presto dimenticati, e comunque senza una coerenza stilistica e di genere. Sembrava un autore verso il declino, che non riuscisse più a cucirsi addosso un film. In più quest’ultimo suo episodio rischiava di essere schiacciato tra produzioni più spinte, pubblicizzate; ma fortunatamente se un film ha delle buone fondamenta, alla fine regge, e questo “American Gangster” le fondamenta le ha fortissime. Una struttura classica, che contrappone il gangster preciso, retto, coerente e il poliziotto disordinato, disturbato, puttaniere…due storie che per tre quarti di film non si incrociano fino alla resa dei conti finale, creando una tensione palpabile grazie al grandissimo lavoro di montaggio dell’italiano Pietro Scalia che riesce, assieme al regista, a dare un’ “anima” alla pellicola. Dicevamo una storia per certi versi classica, ma che, nel suo sviluppo sembra troppo inverosimile, salvo poi (per l’ignaro spettatore) venire sorpresi quando si scopre che altro non è che una storia vera! E il surplus, come dicevamo all’inizio, è dato indubbiamente dai due protagonisti, da una parte Washington, sempre più bravo, preciso, impeccabile, sia passando dalla parte dell’eroe a quella di “cattivo” come in questo caso, un gangster imprenditore, che si muove poco, quasi statico come il padrino di coppoliana memoria, eppure spietato all’inverosimile, dall’altra un Russell Crowe forse nella sua interpretazione più convincente, poliziotto onesto all’inverosimile, trasandato, che lascia andare a rotoli la sua vita per il lavoro e per gli ideali, un’interpretazione meritevole di Oscar ma che non gli ha fruttato neanche una nomination (come al montatore Scalia). Una pellicola che tiene incollati alla poltrona dal primo all’ultimo dei suoi 157 minuti e che dà vigore ad un genere che ultimamente si sta rinnovando (vedi “The Departed” di Scorsese) ed è sempre più al passo coi tempi nostri.