George C. Wolfe

Drammatico

George C. Wolfe Ma Rainey`s Black Bottom


2020 » RECENSIONE | Drammatico | musicale
Con Viola Davis, Chadwick Boseman



28/12/2020 di Helga Franzetti
Thomas Dorsey, il famoso pianista e compositore, scriveva di lei in The rise of the Gospel Blues “Non era bella ma al suo apparire ogni cosa scintillava come i suoi gioielli, il suo sguardo catturava il pubblico che iniziava ad ondeggiare al suono delle sue parole, poi le note diventavano gemiti, e i gemiti una cascata di amore.”

E’ uno spettacolo sudato e sensuale ad aprire la pellicola di Ma Rainey’s Black Bottom, a metà tra vaudeville e cabaret, a suon di jazz e scintille ardenti che illuminano ogni angolo del palco. Sguardi afrodisiaci, cosce ben in vista, piume di struzzo e abiti eleganti; lei, la sensualità in persona, e la musica, piena di passione, saturano l’ambiente di audaci melodie. La sua voce profonda e disarmonica strega un pubblico conquistato da un magnetico carisma, una presenza scenica che invade l’intera sala e la Georgia Jazz Band, la sua band (“quale band, questi lavorano per me”), padroneggia uno stile solido e duttile al tempo stesso. Ma Rainey assorbe l’influenza del vaudeville e dei medicine show, dai quale nasce, e ne scioglie la loro teatralità negli umori blues del Sud più profondo. Gestualità, linguaggio, slancio e vigoria superano confini geografici, canoni stilistici e tabù di genere. Ma Rainey’s Black Bottom disegna la figura di una donna dalla personalità prorompente, una artista contro ogni convenzione, indipendente, ardita, voluttuosa e anche oscena, padrona di sé stessa e della sua carriera, e Viola Davis ne sa cogliere ogni aspetto e retroscena, ma non solo, Ma Rainey’s Black Bottom rivela uno spaccato di storia americana aggrovigliato attorno alle note di una musica che in quel periodo sfondava le barriere. Siamo nel 1927, ancora in pieno esodo verso le grandi città. Tra tutti c’è chi viaggia, oltre che con la speranza in tasca, con appresso gli strumenti. Quando il blues arriva al Nord, però, si trova a fronteggiare non solo un ambiente sociale ancora ostile, ma anche un approccio ben diverso alla musica stessa. Gli anni tra i Venti e Quaranta sono quelli dei Race Records, in un contesto dove l’industria discografica bianca, in crisi dopo l’avvento della radio, annusa un’enorme opportunità di guadagno. Da qui il passo che avrebbe portato a compromessi di ogni genere sarebbe diventato molto breve. Un periodo in cui registrare un album per un musicista nero significava spesso essere sottopagato e magari vedersi costretto a cedere i diritti ai produttori, come succede nel racconto al giovane Levee, musicista talentuoso e impulsivo, smanioso di incassare assegni prima ancora di essere scritti, ma che con la sua ambizione imboccherà una discesa senza freni.

Ma Gertrude Rainey, in quegli anni, è già sulla cresta dell’onda e in un’epoca in cui la musica funge da veicolo, rappresenta una fra le prime (donne, tra l’altro) a portare il suono afroamericano al cospetto di un pubblico bianco. In una Chicago diffidente, razzista e prevenuta, pronta ad accogliere un nero solo con uno strumento in mano, Ma ribalta i ruoli: durante il susseguirsi di ogni scena impervia la sua incredibile determinazione nel conservare un alto senso di dignità. Lei sapeva che una volta catturata la sua voce su vinile l’industria discografica non l’avrebbe che sfruttata: “Non gli importa niente di me, vogliono solo la mia voce. Non è una novità, ma devono trattarmi come voglio che mi trattino”. Risoluta, autoritaria, caparbia, impone i suoi vizi e i suoi capricci (“non canterò finchè non avrò la mia Cola”) ai produttori bianchi, facendo impazzire il suo agente che si vede costretto ad assecondarne le bizze per non perdere l’ingaggio. Non cede spazio di un centimetro, sa bene quale sia la posizione da tenere “Non c’è nessuna certezza con Ma, lei fa quello che le pare”, ma l’ostentazione di una dirompente individualità rappresenta la sua stessa lotta per difendere talento e identità artistica, in un mondo da anni 20 di fronte a una donna afroamericana. Sempre coerente, mai lontana dalle provocazioni, apertamente bisessuale Malissa Nix Pridgett portò alla ribalta 150 pezzi blues, di cui almeno 25 tutti autografi. La sua voce, malinconica e piena di dolore, aveva uno stile inconfondibile, i testi delle canzoni mai così espliciti e piccanti, il linguaggio brutale e diretto, le storie piene di amori spezzati, alcool, prigione e promiscuità, di vita quotidiana nelle periferie del sud. Ma riuscì ad affascinare centinaia di fan, e la sua particolare danza tentatrice, chiamata Black Bottom, sfondò la scena di ogni set consumato in giro per gli States.

L’impostazione teatrale scelta per il film deriva dalla stessa opera portata in scena a Broadway tratta dal lavoro di August Wilson, che ben si sposa con le origini della musica di Ma’. Srotolata sulle ore di appena una giornata della sua vita, acquista senso compiuto attraverso il ritmo fortemente cadenzato, musicale, drammatico nei saliscendi di tensione, tragico nei monologhi dei protagonisti, potente nelle rivendicazioni, romantico nel filosofeggiare sulla musica: “Io ho sempre odiato il silenzio, io devo sempre avere della musica in testa, ti evita di impazzire. La musica fa questo, riempie i vuoti… tu canti perché è così che parla la vita. Il blues ti aiuta ad alzarti dal letto la mattina, ti alzi e sai di non essere solo.” Il linguaggio è proprio quello del blues, diretto, immediato, tanto che i dialoghi potrebbero costruire i testi di una canzone, mentre a brillare sono le interpretazioni e il tempo scandito dalle battute. La pellicola svuota la coscienza dei protagonisti, nei pensieri, nei racconti, in uno studio di registrazione claustrofobico sull’orlo di un’esplosione. Straordinaria l’interpretazione di Chadwick Boseman (la sua ultima prima di lasciarci a causa di un impietosa malattia) nei panni del giovane Levee, figura imperiosa e seducente nei suoi modi impertinenti, presuntuoso e gagà. Il giovane musicista è un incantatore dalla spiccata parlantina, veloce con la sua tromba, accattivante nei modi e persino con una spiccata visione musicale proiettata verso l’imminente futuro commerciale: “Non è che musica da vecchi e jug band. Al pubblico del Nord non interessano questi spettacoli da circo, la gente vuole ballare”. Ma in quello stanzino, il suo vicolo cieco, si ritrova travolto in un vortice di rabbia e dolore per un passato severo, dove si perde divorando con ferocia ed egoismo il suo unico piccolo mondo. Il personaggio di Boseman brucia lo schermo, tiene testa alla personalità di Ma e la forza dell’interpretazione lo getta nel ruolo di coprotagonista. Tutti i personaggi hanno un ruolo nella costruzione dell’impalcatura, Cutler (Colman Domingo), capo per procura e pilota della band, Toledo (Glynn Turman), il pianista “filosofo” che non giustifica il comportamento remissivo del suo popolo in una società che nega appartenenza “nessuno parla di come rendere la vita dell’uomo di colore migliore qui in America. Nessuno parla di quale vita faranno nel mondo che lasceranno ai giovani” e Slow Drag (Michael Potts) il buono, il bassista a cui va bene tutto.  La fotografia, invece, diretta da Tobias A. Schliessler lavora pregevolmente sull’intensità dei contrasti: esterni ariosi (Cutler, Slow Drag e Toledo che attraversano la strada in una bellezza soprannaturale) e umidi seminterrati, colori saturi, immagini che dal basso rivolgono inquadrature verso il cielo, come a cercare fede, speranze, vie d’uscita.

Un ibrido teatro/cinema/televisione, che di questi tempi, in cui la cultura poco ci concede (senza responsabilità ad essa imputabili), la formula potrebbe anche funzionare.

Malissa Nix Pridgett spianò la strada alle cantanti che sarebbero venute dopo tra pregiudizi e arcaici stereotipi che vedevano confinare la musica blues ad un universo prettamente maschile, fu una delle prime “femministe”, pioniera di un mondo nuovo fatto di eguaglianza tra i sessi e le razze. Prodotto da Denzel Washington, Ma Rainey’s Black Bottom è “la forza delle parole che gridano di non soccombere, la storia di una comunità, di una donna afroamericana, della coscienza di sé” che emerge nei dialoghi taglienti e nella potenza di ogni monologo del film, è la dichiarazione del potere salvifico della musica e di come essa stessa diventi parte attiva nella società, fino ad esprimere un profondo atto politico.