Ci sono stati momenti nella storia del cinema in cui esso s’è incontrato con la poesia, in un grande abbraccio ideale. I film di Fellini hanno contribuito in maniera decisiva a tale connubio.
Nonostante non sia un film riuscitissimo nei risultati rispetto alle premesse, anche “Ginger e Fred” sviluppa le tematiche e le istanze tipiche della poetica felliniana. Mi riferisco ovviamente al tema del sogno, la visione estraniante del viaggio onirico, nonchè l’amarezza per la perdita di un mondo lontano, un mondo che non c’è più (era solo il 1985, cosa direbbe oggi il cineasta?). Effettivamente il linguaggio utilizzato è proprio quello della digressione onirica, la narrazione lineare sacrificata parzialmente, in nome della figurazione espressionista (il dietro le quinte della trasmissione con tutti quei personaggi strambi e stralunati è un tipico orizzonte felliniano).
Ma non è tutto: il film vuole essere una dura requisitoria contro il mondo della televisione, quel mezzo che Fellini amava come i crauti a colazione, soprattutto per i numerosi spot pubblicitari che spezzavano i film. Per questo motivo Fellini tirò fuori di lì a poco la celebre frase: “Non si spezzano i sogni”, riferito alla pubblicità in tv.
Fellini aveva già polemizzato garbatamente con il mondo dei fotoromanzi trent’anni prima: era il 1952 quando veniva girato “Lo sceicco bianco” con Alberto Sordi.
Ginger e Fred sono in realtà due ex-ballerini, Pippo Botticella e Amelia Bonetti. Essi formavano negli anni’40 una celebre coppia di tip-tap, e a livello nazionale erano noti soprattutto per essere gli imitatori ufficiali della coppia americana Ginger Rogers-Fred Astaire. I due, ormai anziani, sono convocati a Roma per partecipare a una discutibile trasmissione che rivisita vecchie glorie dello spettacolo ormai dimenticate, in un’operazione-nostalgia stile “Meteore” d’epoca. Pippo e Amelia stentano anche a riconoscersi, troppi anni sono passati. Entrambi hanno aderito all’iniziativa forse solo per i pochi soldi che la TV gli passa, ma anche un po’ per non sentirsi “morti” artisticamente (e non solo). Dall’incontro apprendiamo infatti che i due squinternati, soprattutto Pippo, non se la passano benissimo, faticano a campare e vivono di comparsate qua e là. Scopriamo anche che i due ai tempi, oltre che colleghi, erano anche fidanzati. Fu lei a lasciare lui, e Fred non la prese un granchè bene, pare abbia attraversato momenti di depressione con manie suicide. Ginger lo viene a sapere solo ora.
Il tono del film è fin troppo “Amarcord”: accanto ai due protagonisti scorgiamo altri personaggi assurdi, richiamati dalla TV allo stesso scopo, vecchie cariatidi scadute e dimenticate, come l’anziano ammiraglio, l’intellettuale, il frate volante, il travestito. Sembrano tutti usciti da un sogno, e non ci stupiremmo se Fellini li evesse sognati davvero.
Ginger e Fred provano il loro numero con difficoltà nel tumulto irreale del dietro le quinte, la ruggine si vede tutta, troppi anni sono passati dall’ultima volta che hanno ballato insieme. E non si tratta solo di ruggine fisica: i due devono infatti superare un passato che li ha allontanati in maniera troppo drastica. Ci sono vecchi rancori da parte di Pippo che traspaiono dalle sua affermazioni nei confronti della vecchia compagna. Tutto ciò a riprova che il film presenta più amarezza che poesia.
Il cinismo della televisione è incarnato dall’eloquente figura del presentatore. A interpretarlo vi è un efficace Franco Fabrizi, sempre buono per ruoli senza scrupoli (memorabile in quello del debosciato ne “I Vitelloni” del 1953, sempre con Fellini).
Arriva finalmente il momento dell’esibizione: Ginger e Fred hanno a malapena provato il numero e l’insicurezza è palese in entrambi. Molti dei concorrenti si sono già penosamente esibiti, tocca edesso alla coppia rendersi ridicola davanti a tutti. Pronti-via, e un black-out in studio ci ricorda come questo mondo sia finto e precario. Ginger e Fred interrompono sul nascere l’esibizione. Nell’oscurità, lui le propone di rinunciare, e di scappare via approfittando del buio in sala. E’ l’unico modo per evitrare una brutta figura e salvare quel poco di dignità rimasta. La proposta non può tuttavia realizzarsi poichè in studio torna la luce e i due sono costretti ad esibirsi. Pochi passi di tip-tap e Pippo-Fred incespica cadendo goffamente in terra. Applausi ipocriti scorrono dal pubblico in sala, così come l’altrettanto falso incoraggiamento del presentatore-Fabrizi. Forse era meglio scappare prima.
Siamo all’epilogo: Fellini ci ricorda in quest’occasione, che il cinema possiede un proprio strumento di grande efficacia narrativa, di cui spesso e volentieri ci si dimentica. Esso riguarda le immagini, che più di qualsiasi testo e copione, ci danno l’essenza di una storia, o meglio di un sogno. Pippo e Amelia si ritrovano soli in una stazione Termini desolata. Egli deve prendere il treno e tornare a casa, lei lo accompagna perchè, tutto sommato, “le ha fatto piacere rivederlo dopo tanti anni...”. E’un finale di tipo Chapliniano, una sequenza in fin dei conti molto semplice. Ma se nei poetici finali di Chaplin i due personaggi condividono un destino e un orizzonte comune, per Ginger e Fred le strade invece si dividono, il sogno effimero per l’appunto, finisce qui. Tuttavia, ciò che invece è condiviso per entrambi (e anche per lo stesso Fellini), è l’amarezza per quel mondo perduto che non esiste più, per una giovinezza che è scappata troppo velocemente, portandosi dietro una grande nostalgia.
(Scritto nel novembre 2005)