Bryan Singer, Dexter Fletcher

Drammatico

Bryan Singer, Dexter Fletcher Bohemian Rhapsody


2018 » RECENSIONE | Drammatico | Biografico, Musicale
Con Rami Malek, Mike Myers, Aidan Gillen, Tom Hollander, Joseph Mazzello, Lucy Boynton, Allen Leech, Michelle Duncan, Aaron McCusker, Max Bennett, Gwilym Lee, Ben Hardy



03/12/2018 di Laura Bianchi
Glielo dico io cos'abbiamo... siamo quattro emarginati, male assortiti, che suonano per altri emarginati...i reietti in fondo alla stanza che sono piuttosto certi di non potersi integrare: noi apparteniamo a loro!

Quando Rami Malek, alias Farrokh Bulsara, alias Freddie Mercury, recita questa battuta di fronte al futuro manager dei Queen, agli inizi della loro corsa verso un successo folgorante, il pubblico di Bohemian Rhapsody, il biopic sui Queen, sa già tutto: conosce la storia fin dalle sequenze iniziali, che raccontano un Mercury in procinto di salire sul palco del Live Aid, il 13 luglio 1985 al Wembley Stadium, e sa che il racconto si sta snodando a ritroso da quel momento. Non aspetta altro che rivivere quella performance storica, in quel caldo pomeriggio di luglio, e conosce anche il percorso umano e artistico di uno dei performers più ammirati del ventesimo secolo.

Il principale difetto di Bohemian Rhapsody sta proprio nella sua essenziale prevedibilità; il che non sarebbe un male in sè e per sè, in quanto i biopic hanno sempre un sapore di déjà vu, soprattutto quelli riguardanti rockstar. Eppure, ogni tanto, la sceneggiatura regala piccole perle, come la battuta sopra citata, che illumina di una luce contemporanea la parabola esistenziale e musicale di un profugo da Zanzibar, spregiativamente chiamato Paki dagli inglesi dell'aeroporto di Heathrow, in cui lavora come facchino, e che trova nel dono di una voce irripetibile lo strumento del proprio riscatto, ma anche la condanna di una personalità complessa, sempre in bilico fra insicurezza e egocentrismo, fra bisogno di essere amato e necessità di vivere sopra le righe, fra desiderio di normalità e tentazione per gli eccessi.

A questo punto, è anche chiaro dove la regia (prima di Bryan Singer, e poi di Dexter Fletcher, che ha concluso il film, cercando di inserirsi senza disturbare, anche se qualche scollamento è ben evidente, come è normale, in una produzione durata ben otto anni) vuole portare lo spettatore: a rivedere la storia dei Queen ricostruendola come un’allegoria di una qualsiasi band – famiglia (come un fin troppo paternalistico Brian May ripete nel corso del film – ma del resto, essendone uno dei produttori, non avrebbe potuto dare di sé un’immagine meno positiva…).

Una famiglia di elementi tutti diversi fra loro rischia di essere stritolata dallo show business, e, se all'inizio mantiene il proprio potenziale iconoclasta (gustosissima la scena da Ray Foster, della casa discografica EMI, interpretato da un Mike Myers in stato di grazia), poi segue le chimere del successo facile, in seguito viene abbandonata dal front man, manipolato dal cattivo di turno (davvero il personal manager e amante Paul Prenter, detto Trixie, è stato così perfido, oppure è un’altra figura allegorica, ricreata da May in fase di scrittura? Inutile discuterne: Prenter è morto e non può difendersi...), e infine si riunisce in occasione di una buona causa, per la gioia del padre zoroastriano di Bulsara – Mercury, contabile dell’alta corte del governo britannico (buoni propositi, buoni pensieri, buone azioni, soleva ripetere al figlio, il quale lo saluta nello stesso modo, prima di andare a Wembley e siglare la propria personale rinascita).

I fans non cerchino quindi, nel racconto del film, la veridicità storica (Mercury disse alla band di aver contratto l'AIDS dopo Live Aid, non prima; la band non si era mai effettivamente sciolta; Jim Hutton, il suo ultimo compagno, incontrò Mercury in un gay club e non durante una festa a casa sua, in cui lui lavorava come cameriere), né la verosimiglianza (anche se i denti sporgenti - con eccessivo difetto di pronuncia - e gli occhi sbarrati di Freddie sono perfettamente ricreati). Piuttosto, si emozionino per la costruzione miracolosa di brani come Love of my life, We will rock you, Another one bites the dust, ovviamente Bohemian Rhapsody, e si preparino a un’esperienza completamente immersiva, nella ricostruzione filologica del celeberrimo Live Aid. Nella lunga sequenza relativa al concerto, infatti, gli effetti tecnici rendono perfettamente il clima della performance nell’evento di massa più celebre della storia del rock, e, insieme, il montaggio delle dodici cineprese sul palco (nonché la consulenza di un memore May, che immaginiamo si sia molto divertito, nel vedersi perfettamente ricreato dal bravissimo Gwilym Lee) restituisce anche il gioco di sguardi dei quattro Queen, prima ansiosi, poi divertiti, infine esaltati per un momento indimenticabile, per loro e per il pubblico.

Se la storia vera dei Queen è diversa e più complessa, se Mercury è ben altro che l’icona bisessuale che certo show business ha imposto – e censurato - per decenni, se certi stereotipi appesantiscono la narrazione, alla fine, importa poco; la splendida resa della fisicità di Mercury, operata da Rami Malek con rispetto, senza scimmiottamenti, emulando e non cercando minimamente di rifare l’inimitabile padronanza della scena di Freddie, insieme alla sequenza del Live Aid, basterebbe per consigliare la visione non solo e non tanto agli appassionati dei Queen, ma a chiunque desideri riflettere una volta di più sulle miserie e sullo splendore del mondo dello spettacolo, e anche perdersi nei ricordi di un periodo tanto vicino cronologicamente, eppure tanto lontano, per stili di vita, energie in circolo e creatività.