Bao Nguyen

Documentario

Bao Nguyen We are the World: La notte che ha cambiato il pop


2024 » RECENSIONE | Documentario
Con Lionel Richie, Cyndi Lauper, Smokey Robinson, Bruce Springsteen, Dionne Warwick e Huey Lewis



07/02/2024 di Valerio Corbetta
Ai primi passaggi pubblicitari ero molto dubbioso: “Sarà la solita pataccata
americana, melensa e piena di retorica”. Poi una sera mi son detto: “Cià, guardiamolo”. Non fosse altro che per fare un tuffo nei ricordi di quel 1985, anno
della Maturità, del 21 giugno (sì, di “quel” 21 giugno) a S.Siro, delle tre settimane in
giro per la Toscana col furgone di Claudio attrezzato come un camper alla bell’e
meglio, il mangiacassette che sparava fuori Huey Lewis and the News mixato coi
Doors, De Gregori, CSNY, Guccini, Springsteen, Dalla, Dylan, Jackson Browne,
Clapton, Bertoli, gli Eagles, Ron, la Nitty Gritty Dirt Band, gli America, i Creedence…


Beh, alla fine dell’ora e mezza di visione di We are the World: La notte che ha cambiato il pop, il documentario firmato Bao Nguyen per Netflix, quasi mi commuovo. Scopro cose che allora non avrei mai pensato potessero interessarmi e che oggi invece guardo con stupore: il lavoro di preparazione, quello in studio di registrazione, la realizzazione dei demo, lo scambio di idee e soprattutto di emozioni tra artisti così lontani, eppure così simili.

Un capolavoro costruito in una unica, lunghissima notte a Los Angeles, tenuto
segreto allo star system per evitare l’assalto di giornalisti, fan e curiosi, vista la
pletora di artisti di primissimo livello, coinvolti da Lionel Richie in un progetto
umanitario gigantesco che anticipa di qualche mese il Live Aid di Bob Geldof
(presente pure qua).

Scopriamo così che le debolezze di Michael Jackson (che a me ha sempre detto meno di zero, mentre ne scopro il dolcissimo lato umano) sono uguali a quelle della Sacra Capra di Duluth,  che passa quattro ore in un angolo, silenzioso, scazzato, triste come un tifoso che ha appena visto la sua squadra perdere una finale ai rigori; salvo aprirsi in un sorriso liberatorio quando tocca a lui cantare il pezzo di strofa in voce singola.

A Huey Lewis tremano le gambe, ed è lo stesso che accade a Billy Joel, le paure di Diana Ross sono identiche a quelle di una scatenata Cyndi Lauper che ha i brividi prima di agganciare note altissime e penetranti. C’è un Bruce Springsteen che sembra un ragazzino alla festa di fine anno scolastico, tanta è l’emozione che gli si legge sul volto e nella voce da timido imbucato in mezzo a colleghi che osserva con occhi da bambino la mattina di Natale; eppure è l’anno della sua consacrazione a star planetaria che segue l’uscita di Born in the USA, tanto che arriva allo studio di registrazione direttamente dall’ultima data del tour che ha toccato ogni angolo d’America.

Niente pataccata: è da vedere. Da chi allora c’era e ricorda vagamente
quell’avventura - ho ancora la cassetta originale del progetto immediatamente seguente, registrato per raccogliere fondi per combattere la fame in Etiopia, dal supergruppo USA for Africa, quella con anche Tina Turner, Chicago, Kenny Rogers, e una meravigliosa Trapped proprio di Springsteen - e anche, forse soprattutto, da chi questi "dinosauri” li ha sentiti solo di sfuggita su Capital o visti in qualche vecchio video di MTV.

Perché è una “night in pop”, ma in realtà è anche molto “rock”.