Vialli: la fiaba senza lieto fine
Come in una fiaba, Gianluca Vialli era nato in un castello: si era liberato presto della camicia di famiglia, per sporcarsi tibie e caviglie nei cortili e negli oratori della Bassa, tra nebbie e umidità che non fanno differenza di ceto, quando c’è da riempire polmoni e far correre il rischio di tossire ed avere la febbre per una settimana.
Tornava a casa con ginocchia e gomiti sbucciati e coi ricci impastati di polvere e sudore perché, come in una fiaba, era partito alla ricerca del suo Graal dalle grandi orecchie, iniziando a sognarlo da piccolo, per arrivare a sfiorarlo in una notte inglese di maggio, quando un orco olandese sotto l’arco di Wembley glielo tolse a un niente dalla presa decisiva, dopo che lui aveva mancato più di un’occasione propizia per metterselo nello zaino.
Per arrivare fin lì aveva già realizzato un miracolo a capo della banda dei Sette Nani, lui Pisolo, a fianco dell’amico Mancio-Cucciolo, e gli altri soci, capaci di scherzi e bisbocce, ma poi implacabili quando arrivava la domenica e c’era da battagliare sul serio: così avevano portato in riva al mare di Genova un tesoro inestimabile, mai nemmeno sfiorato prima e impossibile chimera poi.
Ma il Graal rimaneva là, inafferrabile. Per provare a farlo suo, fu costretto a diventare adulto: si travestì allora da guerriero a fredde righe verticali, abbandonando quei meravigliosi accostamenti cromatici orizzontali, indossati per anni nella spensieratezza all’ombra della Lanterna. Fu così che, finalmente adulto e tra mille sofferenze e paure, raggiunse il trofeo che sognava da bambino, quando nel castello era circondato da ogni giocattolo, ma lui correva in oratorio, dove c’era un pallone da calciare con gli amici.
Non si fermò, continuando a raccogliere gloria oltremanica, dove, sempre come in una fiaba, incontrò anche l’amore definitivo: biondo, occhi azzurri, solare come il Paese da cui veniva.
Ma le fiabe non sempre si chiudono con tutti a vivere felici e contenti: e forse il finale della sua, tragico come quello di tanti altri, ma amplificato dalla notorietà e soprattutto dalla grandezza professionale e umana del personaggio, è servito a farci capire quanto sia importante assaporare la vita per quel che ti dà e che ti crei. Che il tempo è il bene più prezioso, gli affetti quello irrinunciabile, le passioni il motore che la alimenta. L’eredità del suo essere stato Gianluca Vialli non sta nelle innumerevoli conquiste sportive, ma nell’esempio, che, in quanto famoso, diviene visibile a molti, di resilienza al dolore e all’ineluttabilità del male: quando perdere non significa uscire sconfitti, se si è fatto di tutto per evitarlo, sorridendo e scherzando sempre, per regalare positività pur sapendo che non avrai il tempo di “portare le figlie all’altare vestite di bianco”. Il suo ultimo desiderio irrealizzato.